Ho sempre dato un valore di apoliticità e quindi inconcludenza a un termine: biopolitica, che associa la politica alla vita, dato che la vita stessa è già di per se stessa descrivibile e agibile attraverso l’atto politico. Tuttavia ciò che sta accadendo in queste settimane, il profondo mutamento antropologico che avviene nello stesso sistema di relazioni sociali capitalistiche, stravolgendole, non può essere spiegabile e agibile con le normali categorie socio-economiche della politica. Del resto, se per Marx “l’uomo nuovo” è un essere sociale complessivo, che riassume superandole le contraddizioni stesse tra umanità e natura, e che relega il capitalismo a un momento dell’esistenza sociale della comunità umana, la politica è qualcosa che va oltre il piano dei rapporti conflittuali tra classi, tra individui, andando a investire una dimensione più vasta e prodonda come il rapporto tra umanità e natura.
Per questo, la biopolitica diviene pertinente nel descrivere il conflitto dentro la società tra chi nel nome del mercato e della sua crescita all’infinito sta devastando gli equilibri naturali del pianeta e accelerando per esempio l’era pandemica dei virus nel salto di specie determinato da fenomeni “non-umani” e “non naturali” come la deforestazione e gli allevamenti intensivi, e chi invece comprende che centralità dell'”umano” corrisponde con quella della natura e di rapporti sociali liberi dal mercatilismo usuraio e dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Per un’introduzione all’approfondimento dell’umano e non-umano nel rapporto uomo/natura, rimando a un articoletto di Franco Piperno che è il sunto di una sua confrenza tenutasi i primi di aprile, che trovate a questa pagina di DeriveApprodi.
Questo dunque è lo snodo epocale che ci troviamo davanti. A “soccorrere” l’ideologia politica della rivolta di classe arriva questo virus con le nuove consapevolezze che nascono sulla nefandezza mortale del capitalismo, che sia a centralità del privato o di Stato, come determinate realtà politiche, economiche e sociali spesso spacciate per socialismo.
In queste settimane il terrore del virus ha portato non pochi compagni a giustificare, se non le misure in sé prese dal governo, il rispetto pragmatico delle regole imposte. Ho visto persino esegeti di guerre sociali contro la classe accampare boiate sul lavoro: non si esce di casa ma si fa lotta nei luoghi di lavoro dove si va a rischiare, finendo così per andare a servire la logica imposta dal capitale e dalle ortodossie togliattiane che declinano lo scontro capitale/lavoro con la medesima mitologia stakanovista che tanto bene ha servito il capitale in ogni sua fase che lo stesso “socialismo reale”.
Invece occorre capire, al netto comunque di fermate sacrosante e auspicabili nei luoghi di lavoro, che la distruzione dei diritti e delle libertà civili e la repressione dei corpi sono le facce della stessa medaglia, che continuare a scindere la dimensione del lavoro dalla repressione dei corpi, significa accettare la iperonimia del tempo libero, del tempo di vita rispetto al tempo del lavoro, che continua a scandire in modo forsennato e sanzionatorio ogni altro ambiti delle relazioni sociali. Soloni del tempo liberato non sono più in grado di associare questi opposti, vanno in corto cicuito di fronte al rullo compressore virale che macina tutto, corpi, vite, socialità. E non capiscono che il vero virus è quello divenuto irreversibilmente anti-umano di un sistema che vuole sopravvivere a se stesso, oltre la dimensione umana stessa, verso un fascismo totale e totalizzante che in un delirio di vantata sua eternità vuole rideclinare i rapporti sociali mantenendo i suoi tempi, i suoi ritmi, i suoi flussi umani, la sua produzione nelle modalità di sempre. Ecco ciò che deve restare immutabile a se stesso.
Per questo, ogni gesto individuale o collettivo di rivolta è biopolitica, è rottura con questa gabbia oppressiva che ci stanno cotruendo intorno. Non è irresponsabilità, soprattutto se ad agire è l’intelligenza collettiva della prassi rivoluzionaria. Il virus contagia perché si produce nelle modalità del capitale, perché si devasta l’ecosistema. Occorre fermare costi quel che costi chi vuole continuare a farlo distruggendo le nostre libertà, secoli di lotte sociali e di classe che oggi vengono azzerate.
Se andiamo a vedere le aree di maggior contagio nel nostro paese, scopriamo che corrispondono perfettamente con quelle della manifattura del nord, comprese le zone dei reflui bovini e suini scaricati nei campi, dove la produzione non si è mai fermata e dove il particolato ha sempre proliferato. Dove quindi il pendolarismo di massa non si è mai fermato: ho visto foto recenti di autobus pieni alle 5 del mattino… e non erano runner che andavano al parco. E allora, non è forse questo modo di produzione che va fermato e ridefinito secondo rapporti di produzione socializzati a misura dell’umano?
Mi sembrano concetti semplici, che soprattutto chi ha in sé una memoria politica dell’autonomia operaia dovrebbe associare tra loro di default.