Convoy… o senza di voy!

Convoy… o senza di voy!

L’ultimo episodio di un vasto movimento di massa mondiale contro le restrizioni pandemiche: la rivolta dei camionisti canadesi, mi ha indotto a proseguire le mie riflessioni a ruota libera, auspicando che possano essere utili nel confronto politico a sinistra. Oggi, anche in una situazione in cui il movimento italiano sta subendo una flessione dovuta in parte all’attacco fortemente aggressivo da parte del regime draghista (obbligo vaccinale per gli over 50, misure draconiane mediante il green pass e super green pass), preso allo stremo, vediamo entrare sulla scena conflittuale, segmenti politici e sindacali della sinistra di classe, vediamo una politicizzazione in senso marxista degli Studenti contro il green pass. Anche se in ritardo l’antagonismo anticapitalista fa la sua apparizione. Si tratta di recidere i cordone ombelicale di una sinistra gruppettara e autoreferenziale: per “convoy … o senza di voy” è più che altro un’affermazione pleonastica. Infime chiedo venia per il carattere di questo intervento che ha più la forma di un insieme di note sparse. Buona lettura.

Quando si affronta il tema della lotta di classe e quindi di una rivoluzione sociale – ma vale anche per una battaglia sociale riformatrice – c’è l’antico vizio di schematizzare le divisioni sociali e in particolare la divisione sociale del lavoro.

Non c’è solo in ballo il sistema di relazioni di classe, per esempio quali alleanze, dato che la questione è un po’ più complessa e riguarda in realtà l’ontologia stessa delle classi sociali, cosa sono in una data società, partendo dall’enunciato di Marx, che la loro definizione è basata sul posto che occupano nella produzione sociale.

Tra i marxisti si è già fatto sin troppo schematismo partendo con vecchie configurazioni sociali da operaio massa nel taylorismo e arrivando a definizioni sociologiche, nel puro campo dell’ideologia. Ce ne è per tutti gusti. Pertanto mi ha fatto un po’ sorridere la replica di Michele Castaldo che ho letto su Sinistrainrete, il quale mi ha tirato fuori proprio la prima schematizzazione partendo dalla Russia della Rivoluzione d’Ottobre, che se parliamo di composizione sociale e di classe siamo all’archeologia dei rapporti di produzione capitalistici e ancor prima, essendo la Russia un paese a prevalenza contadina.

La classe è un autobus…

Vorrei quindi iniziare questo mio intervento affrontando la questione delle classi sociali con dei disegni di soggetti, ovviamente di fantasia.

Soggetto numero uno: Laura, un’artigiana che ha una bottega manifatturiera di scarpe e alle sue dipendenze un’operaia e un’apprendista. Suo Marito Sergio è un cassaintegrato in una azienda metalmeccanica della zone, ha 58 anni e se resta a casa difficilmente troverà una ricollocazione.

Giovanni, operaio litografo prossimo alla pensione, ha una casa pagata col mutuo e un’altra che ha messo a rendita frutto dell’eredità dei suoi genitori, che erano commercianti di una merceria.

Anselmo, consulente aziendale, dunque in libera professione, guadagna 60 mila euro all’anno netti, in gestione separata.

Maria, dipendente comunale di secondo livello, ovviamente a tempo indeterminato, anche lei ha avuto la possibilità tra il gruzzolo dei genitori baristi di farsi un appartamento in cui vive con il marito Ugo, disabile con pensione di invalidità.

Bene, ora qualcuno mi deve dire chi fa parte del proletariato e chi no. Dov’è la classe proletaria e dove il ceto medio? Dividiamo le famiglie a metà in base al posto occupato nella produzione sociale dai singoli soggetti? La differenza è redittuale? E come si costruisce allora la classe per sé se non si sa neppure analizzare quella in sé?

Se Anselmo perde le sue commesse, o se ha un rapporto di lavoro a monocommittenza e lo perde, tra qualche bestemmia probabilmente invidierà Maria che da quando ha 20 anni lavora nello stesso ufficio comunale e andrà certamente in pensione, ha la vita garantita fino a quando non finirà nella tomba.

Dunque, possiamo iniziare a dire che il posto che si occupa nella riproduzione sociale, è certamente un riferimento oggettivo, dato che una classe è come un autobus: c’è chi sale e c’è chi scende, ma l’autobus è comunque quel veicolo adibito a un dato trasporto di persone. È oggettivo, ma ci sono fattori specifici relativi allo sviluppo dei rapporti di produzione, delle forze produttive e delle relazioni sociali in generale che ci dicono che oggi esiste una mobilità diffusa che crea incertezza non solo nella “classe”. Chi ieri era dipendente privato può poi essere costretto a diventare autonomo, chi guadagna 1400 euro al mese dallo Stato ha una condizione ben diversa da chi entra ed esce precario dal ciclo produttivo, dal terziario, ecc.

Più che di composizione si può parlare dunque di scomposizione in un sistema completamente deregolamentato dal neoliberismo imperante. Ma c’è di più: scommettereste che il borghese è Anselmo, che guadagna 60mila euri piuttosto che Maria che arriva a 20 mila? Forse allora chi 40 anni fa iniziava a parlare di contraddizione di classe tra garantiti e non garantiti non aveva poi tutti i torti.

Il garantismo è un elemento di stabilizzazione del sistema, che tutt’al più vede vertenze di categoria, anche corporative. E infatti sono molto più conflittuali e anti-sistema i forconi di ieri, come i padroncini, i commercianti di oggi che si sono ritrovati un governo che ha usato la pandemia per accrescere l’e-commerce di oltre il 70% da due anni a questa parte, favorendo nella grande ristrutturazione economica il grade delivery, le multinazionali, la amazonizzazione della circolazione di merci e dei consumi, distruggendo una bella fetta di economia di prossimità e franchisizzando sotto i grandi marchi o in proprietà di fondi molte piccole aziende restanti. L’acquisizione di alberghi prestigiosi a Taormina da parte di Bill Gates è solo un esempio sotto gli occhi di tutti. E che dire del Danieli a Venezia? Sono gli esempi più eclatanti, ma lo shopping di fondi e multinazionali è solo l’esito di una politica di governo e UE, che punta alla concentrazione del capitale e a modificare l’intera struttura del capitalismo. E in Italia, che ha come spina dorsale le piccole e medie imprese, sono andati a nozze, hanno fatto il lavoro più sporco. Tanti dicono l’Italia è un laboratorio per il “grande reset” mediante la gestione pandemica. Non trovo appropriato il termine “grande reset”, ma ecco trovato il perché del laboratorio.

Più in dettaglio, vorrei affrontare sempre con una visione attenta alle singole parti delle unità produttive, dei soggetti, l’aspetto della grande ristrutturazione economica e sociale in atto.

L’attacco all’economia di prossimità

Il capitalismo familistico manifatturiero è tipico della nostra cultura economica, l’artigiano che si fa da sé. Per i manovratori, i think tank del grande capitale finanziario, questo è un modo vecchio di fare impresa. L’attacco alle piccole e medie imprese avviene con l’arma più vecchia del capitalismo: la concentrazone di capitali attraverso il controllo di governi accondiscendenti, che da anni, ma con la pandemia ciò è aumentato, fanno leggi, decreti e norme fiscali che penalizzano le PMI e che favoriscono le acquisizioni, le scorribande delle multinazionali, lo shopping delle eccellenze produttive. Con il governo Draghi questo processo di concentrazione dei capitali è aumentato. E anche le scelte di redistribuzione dei fondi del PNRR ha lo scopo di penalizzare da una parte e favorire dall’altra secondo la logica draghiana di “distruzione creativa”, che il “timoniere” ha già esposto nel suo documento ai Trenta. Un darwinismo economico, che poco ha di naturale e molto di pilotato secondo gli interessi di valorizzazione del grande capitale, quei pochi fondi tipo Black Rock, che posseggono gran parte dei pacchetti azionari del bio-tech, del delivery, di big pharma. E il cerchio si chiude molte cose si comprendono di questa gestione a senso unico della pandemia, che ha accresciuto i profitti delle grandi compagnie multinazionali e della finanza e ha impoverito milioni e milioni di lavoratori e di piccole attività, che ha distrutto interi comparti produttivi spesso già in agonia. La gestione pandemica nn ha fatto altro che acellerare dei processi economici che erano già in atto, entrando nella dimensione sociale della ristrutturazione basata sulle restrizioni bio-politiche, agendo sulla psicologia di massa dei consumatori suddti.

Le PMI dunque sono sotto attacco sistematico: è attaccata l’economia di prossimità, quel tessuto imprenditoriale, di lavoro autonomo, di autoimpiego, imprese famigliari, attività che rappresentano l’eccellenza italiana, come il turismo, la ristorazione, la ricezione alberghiera, la manifattura artigianale e nel terziario il commercio di vicinato, dovorato dalla GDO e dalla amazonizzazione delle transazioni commerciali. Cambiano i luoghi e i momenti dell’acquisto: negli ultimi due anni abbiamo visto un incremento esponenziale dell’e-commerce, dovuto alle regole restrittive di movimento sulla popolazione, alle chiusure di gran parte delle attività

Non è un caso che ad andare avanti sotto la pandemia siano state le grandi catene commerciali come gli ipermercati e la produzione industriale legata alle commesse con il Nord Europa e con l’estero in generale, con la benedizione di Confindusria.

L’artigiano che diventa fattorino di Amazon, che produce e vende nelle modalità del delivery. Cambia l’organizzazione del lavoro e anche della società. Le persone, in veste di produttori, venditori e consumatori, diventano appendici dell’astrazione di valore in ogni momento della vita, dal selfie al lavoro in smart working, al tempo libero digitalizzato nei social, un espansione smisurata del dominio reale del capitale sui soggetti. Quando scriviamo un post per facebook, noi lavoriamo per Zuckenberg, che estrae valore dal nostro tempo libero. È come se fossimo degli sceneggiatori al suo servizio. Con la nostra scrittura, le nostre foto Zuckenberg aumenta il valore dei contenuti globali e vende agli inserzionisti le nostre preferenze, i nostri gusti, le nostre scelte, ciò che siamo e facciamo. È un modo diverso, più pervasivo e liquido di essere merce forza-lavoro. E non è forse un altro modo, ipertecnologico di conduzione del rapporto capitale/lavoro, oltre il luogo fisico della fabbrica, del luogo di lavoro?

Oltre le vecchie visioni della lotta di classe novecentesca

Va da sé che questa massa di piccole aziende davano lavoro a milioni di proletari precari, vessati dalle aziende stesse, che io definisco i neoliberisti perdenti, ma non è una una visione schematica e mitologica del proletariato, non è nel limitarsi a sostenere quelli dei gradini più bassi, sotto il livello dell’indigenza (che va fatto assolutamente, intendiamoci), limitarsi a questo che si può concepire il marxismo come dottrina della rivoluzione. E quindi neppure privarsi di un’analisi di classe molto più articolata scadendo nel sociologismo di chi dice: i forconi sono fascisti, i no vax sono oscurantisti, i movimenti che prorompono nella società da Ottawa a Rotterdam, da Vienna a Parigi, da Berlino a Sidney, da Milano a Bruxelles sono movimenti piccolo borghesi.

La critica di Castaldo verso la mia visione di collettivismo, che ricordo essere basata su settori sociali che oggettivamente confliggono con il disegno politico neoliberista dominante, non esce da questo schematismo. Mi tira fuori gli operai russi. Bene caro Castaldo, allora mi devi fare un esempio, un solo esempio di rivoluzione proletaria pura, ossia senza contadini, senza borghesia nazionale, senza piccola borghesia. Parliamo di Russia? Di Cina? Di Cuba, del Vietnam? E scopriamo il paradosso del movimento comunista: fallite le rivoluzioni post-ottobre in Europa, i processi rivoluzionari nel mondo sono sempre o quasi partiti dai paesi del terzo mondo, tanto che Mao Tse Tung, Lin Piao, Ho Chi Min, Che Guevara avevano teorizzato e praticato anche con successo la guerra rivoluzionaria centripeta vedendo il fuoco della rivoluzione sociale partire dalle campagne, dalle masse contadine.

Col senno di poi possiamo dire che le rivoluzioni socialiste novecentesche hanno avuto un carattere democratico-borghese non di transizione al socialismo, benché qualcuno da Losurdo in poi si ostini a dare questa valenza alla Cina di oggi. C’è un breve articolo di Mauro Pasquinelli sul sito Sollevazione, che fa piazza pulita di ogni fantasticheria sulla Cina “socialista” e lì rimando per comodità la questione. Sì, questo è un problema che non si è mai veramente affrontato, al netto di una Cuba che resiste e dei processi rivoluzionari bolivariani in America del Sud e Centro America. Si è preferito trovare la nuova mamma dopo la caduta del muro di Berlino, ma non si risolvono così le questioni politiche di strategia rivoluzionaria e di quale socialismo oggi.

Ma torniamo ai ceti medi devastati dall’attacco capitalistico, al loro processo di immiserimento e proletarizzazione, torniamo alla fine delle baggianate sulla società dei due terzi, divenuta dei quattro quinti di precari e poveri in canna, debitori con pignoramenti, cartelle esattoriali impagabili, privi di credito con le banche, torniamo a vedere il restringimento dell’”aristocrazia operaia”, che pur ancora oggi c’è e non è solo operaia, ma garantita è un termine estensivo più consono, a questo rapporto dialettico tra privatizzazioni e non-garantitismo, ossia precarietà permanente.

Siamo sicuri che i marxisti non abbiano nulla da analizzare in tutto questo? E capire come porre la classe operaia, il proletariato al centro del processo rivoluzionario in un rapporto di alleanze scivolose dentro una composizione di classe ibrida, liquida, fluida, che non ha più la sua “naturale” propensione ad associarsi dentro una grande fabbrica, ma è polverizzata in piccoli cicli di produzione, che oggi ci sono e domani no, sono delocalizzati in Romania, dove la catena del valore non è solo fabbrichista, ma per valorizzare il capitale ha bisogno di un apporto di tante figure dentro e fuori, ma soprattutto fuori la produzione, lavoro manuale, lavoro intellettuale di soggetti in costante mutamento.

Dunque una visione schematica di classe è pura archeologia, la vedo in qualche museo del com’erano i nostri nonni. Crollano così anche i facili sociologismi degli struzzi, che si sono rifugiati dietro la mitologia del vaccino per non vedere un movimento internazionale che non si vedeva così da decenni, più vasto di quello del ’68. Struzzi che da dentro la sabbia hanno visto solo fascisti, terrapiattisti e no vax. Gran marxisti, non c’è che dire.

E così finisci col non vedere il passaggio bio-fascista e ipertecnologico di restrizioni che nulla hanno di sanitario, nel non vedere la complessità della ristrutturazione economica e sociale nel salto addirittura antropologico, che dimostra che nella crisi il capitale trova sempre le strade per ridefinirsi. Loro hanno i tecnici, gli strateghi. Noi no. Abbiamo la Cina, grazie!

E così con la vulgata sociologista presa in prestito dai media, neanche facessimo rotocalco da spiaggia, non vediamo la lotta di classe per quella che è, la situazione concreta nelle contraddizioni sociali date. Non vediamo la piega che sta prendendo questa lotta quando fa il suo ingresso la classe operaia, al di là del fatto che brandisca un rosario o una bandiera rossa (questo sarebbe compito nostro… o non siamo più nemmeno leninisti?). La dura repressione dei portuali di Trieste che bloccavano insieme al porto la circolazione delle merci, la realizzazione dei profitti. Lì, dove la classe operaia fa sul serio male, lì dove oggettivamente la classe operaia è autonomia operaia. E non è collettivismo questo… perché hanno il rosario!

Non vediamo neppure le occupazioni studentesche, le autogestioni, i forti richiamo al boicottaggio, alla disobbedienza, sempre sul terreno della circolazione delle merci, perché da cittadini ci hanno trasformato in consumatori.

Tutta questa pletora di marxisti da tavolino dovrebbe guardare la materialità del conflitto sociale e sporcarsi le mani. E veniamo a Lenin.

Questioni del leninismo

Benché la letteratura e saggistica marxista narra la continuità lineare da Marx a Lenin nella concezione del partito comunista, in realtà Lenin operò una rottura ontologica. Infatti Marx Ne il Manifesto sosteneva:

“In che rapporto sono i comunisti con i proletari in genere?

I comunisti non sono un partito particolare di fronte agli altri partiti operai.

I comunisti non hanno interessi distinti dagli interessi di tutto il proletariato.

I comunisti non pongono princìpi speciali sui quali vogliano modellare il movimento proletario.

I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solo per il fatto che da una parte essi mettono in rilievo e fanno valere gli interessi comuni, indipendenti dalla nazionalità, dell’intero proletariato, nelle varie lotte nazionali dei proletari; e dall’altra per il fatto che sostengono costantemente l’interesse del movimento complessivo, attraverso i vari stadi di sviluppo percorsi dalla lotta fra proletariato e borghesia.

Quindi in pratica i comunisti sono la parte progressiva più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi, e quanto alla teoria essi hanno il vantaggio sulla restante massa del proletariato, di comprendere le condizioni, l’andamento e i risultati generali del movimento proletario.”

Quanta ricchezza politica e quanti elementi di riflessione in queste poche righe.

Ma quello che qui ci interessa sono due passaggi:” I comunisti non sono un partito particolare di fronte agli altri partiti operai.” Pur tuttavia “… i comunisti sono la parte progressiva più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi”… un nodo quasi esistenziale che Lenin seppe risolvere a partire dall’esperienza del movimento socialdemocratico dell’epoca e dalla situazione concreta in cui l’organizzazione si trovava a operare. In modo scandaloso svelò la natura borghese di quella parte più risoluta del movimento di classe, la parte rivoluzionaria, portatrice della teoria e della prassi rivoluzionarie. Infatti nel 1902 scriveva:”

“La storia di tutti i paesi attesta che la classe operaia colle sue sole forze è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradunionista, cioè la convinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la lotta contro i padroni, di reclamare dal governo questa o quella legge necessaria agli operai, ecc. La dottrina del socialismo è sorta da quelle teorie filosofiche, storiche, economiche che furono elaborate dai rappresentanti colti delle classi possidenti, gli intellettuali. Per la loro posizione sociale, gli stessi fondatori del socialismo scientifico contemporaneo, Marx ed Engels, erano degli intellettuali borghesi. Anche in Russia la dottrina teorica della socialdemocrazia sorse del tutto indipendentemente dallo sviluppo spontaneo del movimento operaio; sorse come risultato naturale e inevitabile dello sviluppo del pensiero fra gli intellettuali socialisti rivoluzionari. Nell’epoca della quale ci occupiamo, cioè intorno al 1895, non soltanto questa dottrina ispirava completamente di sé il programma del gruppo “Emancipazione del lavoro”, ma aveva conquistato la maggioranza della gioventù rivoluzionaria della Russia.”

È da questa analisi di classe, sui limiti della classe in sé e delle potenzialità oggettive nel passaggio a classe per sé, da questa coppia di opposti, ossia da questa contraddizione che Lenin fonda la sua visione di partito comunista, come coscienza rivoluzionaria, socialismo scientifico apportato dall’esterno, duque come rapporto dialettico tra avanguardia politica e masse. Se avesse fatto del sociologismo, come i cari nostri, la questione sarebbe finita o nel soggettivismo o nel riformismo.

Autonomia di classe oggi

E ora torniamo alla classe, o meglio, alle masse popolari che per la posizione che occupano nella riproduzione sociale e dentro la catena del valore capitalistico, sono oggettivamente antagoniste al capitale multinazionale e finanziario.

Lo facciamo con questo punto fondamentale riacquisito che il leninismo ci dà come lascito per la lotta di classe e i processi rivoluzionari a venire.

Scrive un compagno dell’Assemblea Militante, una rete o ambito di confronto che si è formato dalla diaspora con i gruppetti dirigenti della sinistra nei fatti collaborazionista al draghismo pandemico:

“La solidarietà i comunisti la danno a tutti coloro che sono oppressi dal regime borghese, indipendentemente dalla loro posizione economica e livello di coscienza politica, certo che la solidarietà quella vera, non la si esprime con dei semplici comunicati, ma con l’azione, la solidarietà ai colori che lottano contro il proprio regime la si da lottando a propria volta contro il regime di casa propria. Diversamente sarebbe una solidarietà che non incide molto sulla realtà degli oppressi, questo perché i comunisti hanno la presunzione di essere gli unici in grado di abbattere il regime borghese, alla testa del proletariato rivoluzionario, eliminando qualsiasi forma di oppressione e sfruttamento. Quindi tutti coloro che lottano contro il regime borghese o che solo si difendono, vanno sostenuti senza condizioni, solo così il proletariato riuscirà a coinvolgere tutti gli strati sociali per l’abbattimento del poter borghese, prendendo la testa di tutte le lotte.

In merito alla contrapposizione proletariato borghesia ricordiamoci che si parla sempre di potenziale e ben sappiamo che il proletariato non può sviluppare autonomamente coscienza rivoluzionaria, ma solo istinto di ribellione, sappiamo anche che muovendosi per interessi materiali quella sua parte che appositamente viene “protetta” dal sistema, e si parla dei dipendenti pubblici, se non hanno motivazioni materiali si schierano sempre dalla parte dello stato, è avvenuto durante la guerra di Spagna e durante la rivoluzione russa, in quel caso non li definirei nemmeno proletari, ma semplicemente salariati, i proletari, per essere tali non devono avere risorse, e le aristocrazie operaie di risorse ne hanno a bizzeffe. Più che alle aristocrazie operaie, che sono quasi al di fuori della classe proletaria, l’attenzione andrebbe su coloro che vengono inevitabilmente proletarizzati, che oggi lottano per mantenere la propria posizione socioeconomica, ma quando si renderanno conto che per loro non vi è più alcuna prospettiva, non potranno fare altro che seguire il proletariato, ma questo solo se si saprà appoggiare la loro lotta dando un giusto indirizzo alla stessa. Oggi lo scontro sta assumendo sempre più una connotazione politica, come lo dimostra la modalità di gestire lo stato di salute da parte della borghesia, cosa che ha sollevato uno spontaneo dissenso di massa, di cui non si ha memoria dal secondo dopoguerra, coinvolgendo tutte le fasce sociali, un dissenso che han potuto contenere solo con una repressione che si fa sempre più pesante. Sta ai comunisti saper interagire con questa realtà. I bolscevichi si trovarono in una situazione ben peggiore, ma non esitarono a prendere la testa di un movimento di massa che pur senza coscienza lottava contro lo zarismo, diversamente non ci sarebbe potuto essere nemmeno l’Ottobre. Oggi la lotta è oggettivamente articolata in numerosi aspetti diversificati, per regioni e fasce sociali e bisogna saper interagire in tutti gli ambienti, solo così si potrà convogliare le energie in una direzione unitaria.”

Questo è precisamente per dei comunisti l’atteggiamento tattico corretto da tenere in questa fase storico-politica, nei rapporti specifici con i movimenti di massa che si stanno opponendo con forza sociale spesso dirompente (vedi il Canada) contro i progetti del capitale e degli apparati di Stato, contro le oligarchie finanziarie nei singoli paesi.

Esattamente l’opposto di chi ha derubricato in fretta tutta la questione all’ambito dei vaccini e alla “necessità collettivistica” di punzonare tutti indiscriminatamente, senza vedere quanto altro stava accadendo, cosa sia la gestione pandemica che obiettivi tutt’altro che sanitari ha e quali ricadute totalitarie ha sulla società, nei rapporti capitale/lavoro.

Il lavoro politico da fare è immane per affermare il punto di vista di classe, la coscienza politica, il progetto comunista, di fronte alle incrostature piccolo borghesi che le articolazioni dei movimenti sociali presentano in base agli specifici contesti. E non è rinchiudendosi nelle proprie cittadelle ideologico-politiche, nelle torri d’avorio di una sinistra radicale con la puzza sotto il naso, che si risolve questa dialettica interna alla lotta di classe.

Visto lo sviluppo del conflitto sociale in atto nei vari paesi da questa prospettiva, non si può che constatare come anche questa sinistra radicale con velleità comuniste si sia associata di fatto al collaborazionismo “progressista” della sinistra euroliberista di governo. L’una è la truppa di ascari inconsapevoli, diffusori della narrazione dominante terrorifica e criminalizzatrice “vax-novax”, l’altra è l’agente diretto di questo progetto di concentrazione dei capitali attorno all’amazonizzazione di tutte le attività produttive e del terziario, di distruzione e ridimensionamento della spina dorsale economica italiana che vede nelle PMI il suo cuore propulsivo.

Si capisce allora come i dem d’oltreoceano siano i nemici di classe tanto quanto i dem nostrani con tutte le propaggini progressiste e pseudo-comuniste. E come di contro i camionisti, i precari, i non garantiti privi di risorse, depredati dalla ristrutturazione, lasciati senza lavoro, costretti a chiudere bottega, siano la massa critica, la materia sociale entro la quale agire per orientarla al primo grande urto contro la borghesia oligarchica del grande capitale, contro gli apparati statali suoi fedeli strumenti. Poco importa la composizione ora, poco importano i sedimenti ideologici spontanei, poco importa la narrazione di superficie che è tutta rivolta a voler riaffermare il passato che ormai non c’è più, invocandone la sua carta straccia costituzionale. 

Giano e il ponte crollato

La rivoluzione sociale è come un Giano bifronte con un viso rivolto al passato per quello che si è perso, vedendo un ponte crollato dietro di sé e un abisso di orrore, ma con l’altro volto ben fisso verso il nemico che impedisce l’affermazione di una futura e possibile esistenza decorosa, dei bisogni individuali che diventano collettivi nella classe per sé. Nel passato c’è la classe in sé, nel futuro quella per sé. E dipende dall’avanguardia politica dare direzione a questi passaggi, lavorare all’egemonia per socialismo.

Non lavorare per questo, significa consegnare a una delle frazioni di borghesia, quella populista e reazionaria, nazionalista e fautrice dell’egoismo sociale più putrido, quello dei padroncini patriottici, quelli del “prima gli italiani”, la direzione del conflitto sociale: i neoliberisti perdenti, quelli di territorio, contro i globalisti vincenti.

Ma qual è il collante di una nuova direzione? Intendo dire il collante politico, ideologico, materiale? Non certo la storiella di com’è bello il comunismo tutto d’un botto, il giornaletto messianico, la spiegazione pedissequa della caduta tendenziale del saggio di profitto alla massa. È la lotta stessa nella sua capacità di collegare i soggetti in atti comuni e condivisi come la disobbedienza, il boicottaggio, l’autogestione, la resistenza popolare nelle sue mille forme condivise che rivendicano la sovranità alimentare, terapeutica, dei mestieri messi in condivisione di una collettività nascente. Questo è collettivismo! Non la fila obbligatoria nel TSO alla popolazione! Non l’accettazione di un “socialismo” statalista che si impone con un pass comportamentale qui come in Cina! E si capisce perché certi “collettivisti” sono refrattari e non ci sentono da questo orecchio…

Pensiamo forse che questo tipo di partecipazione intelligente dei comunisti, dei collettivisti nei movimenti e in ciò che si deciderà di fare non spinga in avanti il movimento, non sia di fatto allora i comunisti come parte più risoluta della classe? È esattamente qui che Marx e Lenin si incontrano!

È con questa modalità di apporto di coscienza politica collettivista nei movimenti reali che nasce una visione internazionalista di classe.

Oggi si sta ponendo sulla scena internazionale il passaggio della guerra imperialista, con la crisi NATO-Russia. Dove se non in questi movimenti va sviluppata l’azione dei comunisti? Forse nelle sfilate autoreferenziali?

Solo così i comunisti diventano veicolo di coscienza, conoscenza, valori, prospettiva, in sintesi di autonomia di classe oppositiva ai piani del capitale.

Non basta autodefinirsi comunisti, partito comunista per esserlo: in questo modo si finisce con l’accettare questa definizione anche verso partiti comunisti che tali non sono, vedi quello cinese.

Lo si è nella pratica, stando dentro le contraddizioni e nei movimenti che ne sono il prodotto sociale.

Soggettivazione e rivolta sociale, ciò che preoccupa le élite mondiali

Dall’intervento a tre mani apparso su Carmilla il 5 febbraio 2022, precisamente la chiosa:

“Dalla letteratura psicologica sulle violenze intenzionali sappiamo che, in assenza di altri appoggi possibili, le persone torturate o violate (il cui involucro è stato sfranto con la crudeltà) tendono ad adottare il punto di vista, le idee e i valori dei carnefici. Questo rinforza la nostra ipotesi: è possibile che, proprio perché vittime di un trauma intenzionale, molti di noi si siano trovati – senza sapere come – ad adottare la cosmovisione del carnefice. Si sa inoltre che, una volta usciti dai luoghi della violenza, la principale illusione delle vittime è quella di ritornare al mondo di prima. Dove c’è stata effrazione, però, non è possibile attuare una restaurazione e l’unico modo di procedere è “disfare” la nuova, spettrale e inabitabile normalità per innescare un’ulteriore trasformazione. È difficile che un processo di questo genere sia pensabile per tutte le persone che sono state catturate e violentate dal dispositivo-lockdown, ma non è nemmeno impossibile. Si può pensare, per cominciare, all’immediato ristabilimento della pluralità (informativa, terapeutica, associativa, politica, ma poi anche, in senso pieno, antropologica) e a come avviare processi di ricostruzione collettiva di ciò che è andato distrutto, a partire dalla fondamentale possibilità di fiducia, vicinanza e solidarietà fra umani. Ma, soprattutto, bisogna cominciare subito a inventare soluzioni non violente, non autoritarie, non fasciste per le infinite questioni che si presenteranno nei prossimi decenni: dalla salute delle comunità all’autonomia di singoli e collettivi, dall’approvvigionamento energetico al cambiamento climatico, dalla qualità del cibo alla mobilità. Si tratta, cioè, di sottrarsi fin d’ora – nel nostro intimo, oltreché nelle nostre pratiche – a un sistema che ha mostrato, oltre ogni ragionevole dubbio, di fare davvero schifo.”

(Stefania Consigliere, Alessandro Pacco, Cristina Zavaroni: https://www.carmillaonline.com/2022/02/05/rieducational-channel-il-lockdown-come-dispositivo-di-rieducazione-politica/)

In questo passaggio è descritta bene la soggettivazione sociale in  cui è oggettivamente presente anche la classe che in potenza i movimenti di massa contro le restrizioni pandemiche, ossia la ristrutturazione economica e sociale capitalistica. A parte il “non violente” (non entro nel merito di un’inevitabile strategia rivoluzionaria di fronte a un nemico disposto a tutto), “… la salute delle comunità… l’autonomia di singoli e collettivi… l’approvvigionamento energetico al cambiamento climatico, dalla qualità del cibo alla mobilità…” quel senso collettivo della disobbedienza sociale che parte dalla necessità individuale alla libertà non ha nulla a che vedere con la “libertà” di impresa, con il liberalismo borghese. 

Le masse che urlano libertà sono tante cose insieme. E certamente tra queste esiste la nozione tutta classista, interna alla lotta di classe di ibertà di fronte alla predazione che ti riduce in miseria, che ti toglia la dignità della vita davanti ai tuoi figli, che ti ridce a un’esistenza precaria, priva di prospettive, a un’esistenza rinormata dalle regole pandemiche in un surrogato artificiale di comunità umana.

La rivolta dei camionisti canadesi ha significato la sospensione temporanea dal basso del normale andamento della riproduzione sociale, della catena del valore, dell’estrazione e realizzazione del plusvalore capitalistico. Insieme alla lota dei portuali triestini è la chiave giusta per attaccare dal basso il sistema di potere, la gabbia che ci hanno costruito attorno e che garantisce non la convivena civile,  ma la dittatura dei profitti.

Le parti con le quali l’autonomia sociale e di classe si sviluppa sono due: la pars destruens, che è l’attacco alla riproduzione sociale normata, alle regole imposte… e la pars construens, ossia il farsi comunità dell’autonomia socale, i vari passaggi della soggettivazione degli individui a nuova collettività costituente. Non può esservi una senza l’altra. O per lo meno deve esservi: è una dialettica su cui spingere, se siamo consapevoli che dalle macerie di un capitalismo sempre più autoritario perché sempre più putrescente il nuovo in nuce c’è e può nascere solo da un gesto di rivolta, ossia dall’azione rivoluzionaria liberatoria delle masse popolari. Si può definire questa sinistra che rompe anche gli schemi di uno statalismo oppressivo paseudo-collettivista, da credito sociale cinese, ammantato di marxismo classico, diamattista, che ha in pancia il berlinguerismo, insomma da tutto il ciarpame ideologico novecentesco, come sinistra libertaria, nel senso di liberatoria dalle catene repressive di un capitalismo neoofeudale e post-democratico. Una sinistra libertaria che casualmente prende a prestito il secondo termine dall’anarchismo, ma senza riferirsi ad esso, il quale è un altro paradigma politico in sé. Oltretutto la spaccatura sulla visione della pandemia e della sua gestione di regime è trasversale e anche il mondo anarchico è attraversato da conflitti interni non indifferenti.

Morfologia del potere capitalista

Possiamo dire che davanti a questa autonomia sociale, c’è un sistema di apparati di comando che lavora incessantemente per ridurne le potenzialità conflittuali. Se il problema dei gruppi dominanti del capitale è quello di mettere a valore ogni risorsa della società, dello stato sociale e bene comune, è estrarre più plusvalore possibile dai processi di produzione e di realizazione dei profitti, dobbiamo pensare alla lotta di classe non nei termini stereotipati di un proletariato e di una borghesia che furono, ma diuna contesa tra gruppi sociali per portare la richezza sociale prodotta verso i profitti o verso i redditi.

Più potere di gestione del comando politico e sociale significa questo: non è potere fine a se stesso, ma il potere si misura nella capacità di ridurre ogni rapporto sociale mercificato alla massimizzazione possibile dei profitti estraibili. Il capitalismo è un insieme complesso di rapporti sociali e questo lo sanno meglio i capitalisti di qualsiasi marxoide schematico da tavolino.

Ci sono ambiti della lotta di classe che incidono maggiormente su questi rapporti di forza e quindi sui profitti stessi: ed è per questo che la lotta dei portuali triestini è stato un appuntamento mancato per i marxisti rivoluzionari. Ed è per questo che la violenza di stato si abbatte con maggiore efferatezza sui lavoratori della logistica, dove le merci concludono il loro viaggio finale, nella catena del valore, nella trasformazione in profitto.

Se non si comprende la potenza della classe in questo rapporto conflittuale che è inferente il potere di autonomia o il potere di controllo capitalistico sui suoi processi, si rimane a una visione astratta di autonomia operaia. L’ideologia non c’entra nulla in questo primo passaggio di soggettivazione, di presa di coscienza della classe per sé.

Ordunque siamo in presenza abbiamo visto di un attacco capitalistico mediante ristrutturazione economica e sociale contro il piccolo capitale di territorio e contro la classe da parte di un’élite capitalista transnazionale con un forte potere interno sui governi, attraverso alcuni meccanismi:

  • istituzionali: le elezioni sono una farsa per far succedersi di legislatura in legislatura poi governi di tecnici che adottano le politiche austeritarie dettate dai centri di potere di questa élite, nel nostro caso gli euroburocrati in quota al grande capitale nord europeo. I governi tecnici che vengono nominati dai vari inciuci che non rappresentano nemmeno più le configurazioni politiche emerse con le elezioni, si nutrono di emergenza, trovano la loro legittimità “straordinaria” proprio in questa
  • emergenziali: dopo la stagione democristiana delle bombe e del “rumor di sciabole golpista”, con la fine di della prima Repubblica e della contrapposizione Occidente-socialismo reale, la strategia della tensione non finisce ma trova nell’emergenzialismo la sua forma politica più compiuta, poiché non ha bisogno di carrarmati e di stadi alla cilena. Il colpo di stato permanente si nutre di emergenze. E l’aspetto più inquietante di questa fase storica con l’avvento del covid è che negli atti arbitrari ed extralegali di un governo di autentici asserviti alle élite dominanti, non esiste un termine, dei parametri che definiscano a fine dell’emergenza. Dunque è evidente che si vuole arrivare a fare di questa la normalità per poi fare altro. 
  • comunicativi e semantici: la paura instillata a profusione, l’azzeramento di ogni contraddittorio, la ridefiniziane, ossia dei concetti che stanno dietro a determinate parole, la distrazione dalle vere responsabilità creando nuovi nemici da criminalizzare, l’uso ossessivo della narrazione dominante dei fatti con la loro falsificazione e occultamento, rappresentano gli strumenti della comunicazione d’apparato, quella dominante, che sovrasta a livello digitale e in massima parte in rete ogni altra voce dissonante da questa. Oggi i virologi-star sono gli intellettuali organici del terrore. Più in profondità si tratta della comunicazione verticale (vedi il mio saggio su Carmilla Senza chiedere permesso), ma anche in queste condizioni, invece di creare piattaforme pubbliche per una gestione democratica (se non orizzontale e dal basso) della comunicazione di massa, le élite si sono dotate di veri e propri mostri mediatici piattaforme che decidono arbitrariamente, in base agli interessi che rappresentano quali sono le narrazioni compatibili con questi e quali no, operando una vera e propria censura delle informazioni, spesso spacciandole per fake, ma ancora più ferocemente rimuovendo le fonti di critica sociale dalle piattaforme stesse.

L’era dello Stato etico

Dunque, proprio sul terzo punto sopra elencato, dove nella discriminazione e criminalizzazione per i comportamenti non ci si rivolge più a un nemico esterno (i jihadisti di Charlie Hebdo per esempio…), ma a una parte del proprio corpo sociale secondo i criteri non dei diritti universali ma di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, il sistema capitalista è entrato nell’era dello “stato etico”: uno stato che decide per te sul tuo corpo, sulle tue più intime scelte di vita, su cosa puoi e devi fare e cosa no. Il corpo sociale di viene campo di battaglia fino a ogni corpo individuale. E il piede di porco per scardinare i principi basilari della democrazia borghese e dei diritti universali della persona è stata la pandemia o, più precisamente, la sua gestione globale.

Le dispute su chi l’ha gestita meglio tra tracciamenti e terapie, vaccini e restrizioni, interessa poco. Quello che è molto più interessante e dirimente il futuro di miliardi di persone e dei popoli è la meccanica del controllo sociale, che a funnel porta ogni percorso autoritario verso il controllo globale e totale di ognuno.

Ma quali sono i punti della riconoscibilità di questi percorsi? La narrazione dominante che ripete il mantra del “vaccinatevi”, dai media mainstream agli ascari di regime che si credono comunisti, ci dice per esempio che il green pass è funzionale alla vaccinazione. In realtà è vero l’opposto. Perché l’imposizione (senza obbligo formale in Italia e in altri paesi) dei vaccini, oltre a perseguire profitti mostruosi che sempre a funnel finiscono nei fondi come Blackrok, ha lo scopo di avviare una società discriminatoria basata sullo scambio diritti per obbedienza, per comportemento compatibile e ottemperante tutte le regole che un neoliberismo totalitario e dispotico impone. Sono i vaccini a essere funzionali al green pass, non viceversa.

Dunque, lo stato etico è declinato a seconda delle culture e dei rapporti sociali dello specifico paese, ma gli elementi d controllo tecnologico pervasivo in comune tra green pass e patente a punti, o credito sociale cinese, sono ormai indiscutibili.

Spesso la vulgata di certa compagneria, azzera la diversità tra green pass e carta d’identità elettronica, e applicazioni di tracciamento. Ma fermiamoci a riflettere: io posso lasciare a casa lo smartphone o darlo a un amico compiacente che farà un percorso diverso da ciò che farò io. Così per l’applicazone di tracciamento di google: io posso disinstallarla. Ma con il green pass, se usato nel controllo incorciato cn la carta di identità, come deve essere fatto, non si scappa. Se vuoi entrare in un dato luogo devi averlo con te.

Inoltre, voi credete che le discriminazioni riguardino i “no vax”… ma per quanto tempo si continueranno le vaccinazioni che ormai non hann più nulla di sanitario? E poi verrà il momento in cui i vaccini saranno sostituiti da altro, magari sul terreno del green, ma quello che resterà è il pass. 

Lo stato etico è il lanciafiamme del potere capitalistico neoliberale per riplasmare, ristrutturaee sul piano economico e sociale l’itera società. È strumento di predazione già iniziato con i primi vincoli dell’Unione Europea. Per avere diritti e fare cose devi rispettare questi vincoli. Così accade che gli organismi UE hanno già fatto il primo tentativo di predare i bei immobili dei cittadini: basta inibire alla vendita le classi energetiche più basse con la scusa della green economy e costringere chi se lo può permette a risrutturare l’immobile. E chi non può perde il valore della casa, che verrà messa a valore in vari modi, a seguito di ristrutturazione da banche, fondi e grandi immobiliari. Primo tentativ andato a vuoto, ma ci riproveranno con la solita tattica del’avanzare un po’ per volta.

Non vedere il legame tra i vincoli europeisti e un sistema di controllo sempre più capillare che traccia, classifica, controlla e introduce la meritocrazia tra gli individui significa non capire dovie stia andando la società capitalistica occidentale, ma anche l’orientale, quella cinese, che sul piano del controllo aplica tecnologie molto più evolute.

Ontologia dello Stato etico

Lo Stato etico in genere si basa su una religione. E la religione dello Stato etico neoliberista è il darwinismo sociale, la competizione totale in cui i più forti vincono e più deboli soccombono. Il feticcio è la merce e la sua forma più distillata ed essenziale il danaro. La formula marxiana D-M-D è alla base di ogni liturgia transazionale.

Sbaglieremmo però se pensassimo all’anarchia della produzione e a un mercantilismo generale privo di regole. I piani e le regole ci sono eccome, dato che l’asticella della competizione globale è al livello dei grandi capitali ed oligopoli, al livello delle grandi faglie: USA, Cina, Europa… a una grado di concentrazione di capitali piuttosto elevato, dove in questa corsa all’accentramento chi ne fa le spese sono i capitali minori.

La gestione capitalistica della pandemia ha dato impuslo a un passaggio epocale per la necessaria ristrutturazione economica, che diviene fortemente sociale, un salto antropologico nelle relazioni sociali, nelle modalità della circolazione delle merci e negli stili del consumo, con l’irrigimentazione dell’intero corpo sociale a comportamenti del tutto eterodiretti in modo totalitario, che porta alla scomparsa del cittadino nato dalle rivoluzioni borghesi di due secoli fa per divenire suddito in un nuovo feudalesimo capitalista. Il green pass non è un mezzo ma il fine, il colpo di diapason di un nuovo tipo di consorzio umano fortemente disciplinare e tracciato.

Vediamo i tratti essenziali di questo Stato etico neoliberista:

1. Tessera di controllo individuale e sociale

2. Fine dei diritti universali, dei cittadini e inizio era dei sudditi

3. Distruzione dell’economia di prossimità

4. Moneta digitale, tracciamento dei pagamenti

5. Concentrazione di capitali

6. Controllo delle filiere e dei mercati

7. Predazione dei piccoli beni privati

8. Predazione dei beni comuni

Il cigno nero della pandemia segna la fine delle democrazie liberali per come le abbiamo conosciute tra alti e bassi negli ultimi 150 anni. E l’inizio di un tecno-autoritarismo dove il citoyen sparisce davanti a un capitalismo del controllo sociale totalitario da Ottawa a Vienna, da San Paolo a Pechino. Il totalitarismo dello scambio diritti per comportamenti attraverso la digitalizzazione delle identità.

Per questo occorre ripensare anche a quali soggetti e forme dell’antagonismo di classe, quale internazionalismo dei popoli, delle cittadinanze e delle classi proletarie di fronte a questo disegno biopolitico opprimente, come rompere incessantemente questa gabbia che ci stanno costruendo attorno con nuove forme di comunitarismo trasgressivo, di solidarietà sociale e di rivolta in grado di colpire la loro catena del valore. La questione è aperta.