Questo intervento è dedicato a Forest Michael Reinhoel, combattente antifascista ucciso dai federali a Lacey, Washington, USA il 4 settembre scorso.
Oggi, 11 settembre, è una data importante. Non mi riferisco al 2001, il momento in cui a seguito di attentati “piuttosto dubbi” sulla matrice, gli Stati Uniti hanno iniziato una nuova strategia di aggressione a quei paesi considerati terroristi, in realtà non allineati alle logiche e alle regole del suo impero. È l’11 settembre del 1973, quando con un colpo di stato i militari comandati dal generale Augusto Pinochet Ugarte ponevano fine nel sangue all’esperienza di Unidad Popular (UP) in Cile, delle forze di sinistra e del Presidente Salvador Allende, iniziata tre anni prima con la vittoria elettorale delle sinistre.

L’esperienza cilena di UP fu un tentativo coraggioso ma disarmato, di avviare il paese a una transizione al socialismo, coniugando mobilitazioni popolari, campagne di massa (vedi il mezzo litro latte per ogni minore sotto i 14 anni) con provvedimenti legislativi e istituzionali. Iniziò una redistribuzione della ricchezza nazionale, miglioramenti salariali ai lavoratori, le nazionalizzazioni di grandi imprese come quelle delle miniere di rame. L’errore fu duplice: quello di voler unire in un unico contesto politico socialismo e democrazia borghese e di farlo lasciando intatte le forze armate nazionali e nel contempo evitando di armare le classi lavoratrici.
Questa esperienza cilena di governo popolare, pur con tutte le potenzialità riformatrici, o rivoluzionarie “morbide”, fu soffocata nel sangue a causa di questi limiti appena sintetizzati. Individuarli è il miglior modo per onorare il Presidente Allende caduto con le armi in pugno alla Moneda e tutto il popolo cileno martoriato dai battaglioni sanguinari dell’esercito fascista al soldo della CIA. Ed è per questo che per partire da questi limiti non è possibile non affrontare ancora oggi il tema del guevarismo.
In realtà va constatato come l’imperialismo yankee in Amercica Latina avrebbe trattato con la stessa moneta sia la guerriglia che le sinistre legalitarie ben prima dell’Operazione Condor, il piano repressivo internazionale su vasta scala per stroncare ogni movimento popolare di opposizione all’imperialismo, che ebbe inizio nel 1974. Ma il guevarismo assume una valenza politica preziosa al di là dei rovesci subiti e delle tattiche adottate e in questo contributo vorrei spiegarne le ragioni di fondo.
Cos’è stato il guevarismo e perché è così importante al di là del tempo
Da quasi sei anni Ernesto Guevara era stato ucciso a La Higuera in Bolivia nel tentativo di accendere nella Bolivia rurale un foco guerrillero secondo un disegno politico marxista rivoluzionario che va sotto il nome di “guevarismo”.
Se si sfoglia un qualsiasi dizionario della lingua italiana o enciclopedia, del “guevarismo” leggeremo immancabilmente pressapoco la definizione che ne dà per esempio la Treccani:
“Concezione e prassi politica del guerrigliero e uomo politico sudamericano Ernesto Guevara detto el Che (1928-1967), fondata sulla necessità della lotta armata – iniziata da piccoli gruppi di guerriglieri altamente addestrati e politicamente preparati, e poi estesa alla massa della popolazione – contro l’oppressione dei regimi totalitarî, in partic. quelli dei paesi latino-americani.”
Una definizione che lo limita a una sua prassi specifica, che è quella che Che Guevara e il gruppo dirigente cubano, idearono e attuarono in precisi contesti geopolitici del Terzo mondo (dal Congo alla Bolivia): la guerra di guerriglia rurale, che conferisce alla città il ruolo di retroterra dell’esercito guerrigliero.
In realtà non è questo, ossia non è tanto l’aspetto militare a caratterizzare l’elemento politico di novità che riveste il guevarismo nella lotta di classe in generale, bensì come prima considerazione la sua visione globale, internazionalista, che rompeva gli schemi politici di un socialismo da “coesistenza pacifica” con il capitalismo.
Dunque il valore politico è ben altro e va ben oltre il “foco” guerrigliero.
La genesi del guevarismo
Si può dire che il capostipite del guevarismo sia stato il Movimiento 26 de Julio (si riferisce al26 luglio 1953, all’attacco fallito alla caserma Moncada), l’organizzazione che con Fidel Castro, Ernesto Guevara, Camilo Cienfuegos e altri comandanti guerriglieri diede via alla guerra rivoluzionaria a Cuba e quindi alla rivoluzione socialista in quel paese.
Si poteva pensare, soprattutto all’inizio per quasi tutti gli anni Sessanta, ossia fino all’esperienza disastrosa in Bolivia del Che, che il guevarismo fosse semplicemente una strategia politica con una forte impronta militare mutuata dalle strategie guerrigliere maoiste in Cina e di Vo Nguyen Giap e Ho Chi Minh in Vietnam. Lo voleva la situazione internazionale, caratterizzata da una parte dell’emisfero avviata al socialismo, e da una miriade di lotte di liberazione antimperialista che scuotevano il Terzo Mondo. Il guevarismo invece fece di più, mutando gli scenari asfittici di un marxismo sclerotizzato in tatticismi attendisti.
Fallita negli anni ’20 la rivoluzione in Occidente nei paesi imperialisti, con un capitalismo avanzato che aveva davanti per lo più socialdemocrazie di fatto se non di nome, nuove forze marxiste rivoluzionarie riponevano la possibilità di rotture rivoluzionarie in quei paesi dove la maggioranza della popolazione era contadina, dove si stava formando una classe operaia insieme a strati di borghesia nazionale più o meno interni alle dinamiche coloniali e neocoloniali dell’imperialismo. Ma soprattutto dove le rivolte popolari descrivevano l’acutizzarsi delle contraddizioni sociali. Per cui era nelle cose che le rivoluzioni partissero nelle aree dove la dominazione e lo sfruttamento erano più feroci e dove la rivolta da organizzare e sviluppare nella forma di guerra centripeta (dalle periferie rurali ai centri urbani) partisse dalla classe contadina.
Ma da questo incipit, accade che il guevarismo anche dopo il Che abbia dimostrato una capacità politica di organizzazione e di intervento politico che andava al di là di una specifica forma di lotta e di una strategia di guerra centripeta, adattandosi in modo leniniano per forme di organizzazione e di lotta alle situazioni specifiche.
Il guevarismo, forza rivoluzionaria internazionalista propulsiva
Solo per comprendere il contesto dell’epoca, riprendo quanto scritto da Valerio Evangelisti nella prefazione a La linea del Fuoco, lo stupendo saggio di Manolo Morlacchi sul PRT-ERP, partito ed esercito guevarista argentino:
“Tra gli inizi degli anni Sessanta e il principio degli anni Ottanta, un movimento tellurico stava scuotendo buona parte del mondo. La guerriglia vietnamita, la rivoluzione cubana, l’insorgenza giovanile cinese, l’uccisione del Che in Bolivia, il maggio ’68 parigino, le lotte operaie in Italia, i troubles in Irlanda, le guerriglie africane, le proteste negli Stati Uniti sembravano annunciare un crollo imminente del sistema capitalistico e un cambiamento dei rapporti di potere su scala planetaria.”
(Un brano musicale argentino suggestivo che narra del PRT-ERP e del suo leggendario comandante Santucho)
È dunque in questo contesto che il guevarismo si manifestò come un tentativo di dare vita, organizzazione e coordinamento alle lotte di liberazione antimperialiste che attraversavano il pianeta, a partire dai tre continenti, caratterizzato dall’oppressione coloniale e neocoloniale dei paesi imperialisti, in primis gli USA, che conducevano un’aggressione controrivoluzionaria e antipopolare (come del resto anche oggi) contro ogni paese e movimento che contrastasse il suo dominio economico e geopolitico su gran parte del mondo.
Il 13 e il 14 gennaio 1966, si tenne la prima Conferenza Internazionale della Tricontinental, che riunì paesi e movimenti di liberazione di Asia, Africa e America Latina.
Lì nacque l’Organizzazione di Solidarietà dei Popoli di Africa, Asia e America Latina (e che detto per inciso è durata fino all’anno scorso). Cuba e quindi il guevarismo puntarono a unire le lotte antimperialiste sia di carattere socialista che di liberazione nazionale dei paesi del Terzo mondo. Un’iniziativa internazionale e internazionalista che ha evidenziato la vocazione all’autonomia politica del guevarismo, interessando al di là del socialismo sovietico anche paesi non allineati.
Successivamente, nel 1967 ebbe vita la Olas, l’Organizzazione Latinoamericana di Solidarietà, creata a l’Avana pochi mesi prima della morte del Che, fu il primo coordinamento autonomo da influenze esterne tra organizzazioni rivoluzionarie del cono sud americano secondo la strategia dell’espansione della lotta antimperialista in tutto il continente.
Già questi sono elementi politici di rilievo, in dialettica con le dinamiche conflittuali che si stavano sviluppando un po’ ovunque nei paesi del Terzo mondo e non solo. Vediamone le ricadute con un paio di esempi.
Il guevarismo dopo il Che
Quell’11 settembre 1973, a fianco dei socialisti di Allende e dei comunisti ortodossi del PCC di Luis Corvalàn, dei sindacati, c’era anche la tendenza guevarista espressa dal MIR (Movimiento de Izquerda Revolucionaria, Movimento della Sinistra Rivoluzionaria) che sospese la guerriglia per appoggiare UP, ma senza abbandonare l’impostazione politico-strategica di fondo, propria del leninismo sulla conquista del potere attraverso una forma di lotta armata adeguata al contesto sociale.
Un esempio che ci dice che il guevarismo dopo il Che è diventato qualcosa di più di un’esperienza estemporanea, dotando di autonomi politica e strategica le specifiche forze rivoluzionarie che si riconoscevano nel suo perco5so al socialismo, diventando anche guerriglia urbana, dove la classe operaia delle città non era più retroterra, articolando la strategia della lotta armata in configuranzioni più complesse e aderenti ai specifici contesti nazionali.
È il caso per esempio del MLN-Tupamaros (l’acronimo sta per Movimento di Liberazione Nazionale) uruguaiano che portò la guerriglia nelle città, o del PRT-ERP (Partido Revolucionario de Los Trabajadores – Ejército Revolucionario del Pueblo) argentino che seppe coniugare la guerriglia nelle campagne con quella urbana, in una fase politica che in Argentina era pre-rivoluzionaria, dato il livello di coscienza politica e di antagonismo sociale delle masse popolari. Fu solo la “guerra sporca” ossia il golpe dei generali con a capo Videla il 24 marzo 1976 a stroncare un processo rivoluzionario che neppure i potenti sindacati peronisti erano riusciti a contenere, anche grazie a un peronismo antimperialista e guerrigliero che si affiancava alle forze marxiste rivoluzionarie. In definitiva fu solo il Piano Condor nel cono sud dell’America a stroncare queste guerriglie.
Oltre l’OLAS, già esauritasi nel suo disegno rivoluzionario portante nel 1970, ossia un paio d’anni dopo la morte del Che, gli eredi del guevarismo iniziale seppero proseguire il percorso politico rivoluzionario tracciato dallo stesso Guevara. E lo fecero anche con successi importanti, come la Rivoluzione Sandinista in Nicaragua. E persino nelle esperienze bolivariane degli ultimi decenni c’è molto del Che e le forze che si richiamano al guevarismo hanno avuto ruoli importanti e decisivi. Il sangue della guerriglia scorre oggi nelle vene dei popoli in lotta e nelle democrazie popolari di quel continente.
I quattro punti di rottura del guevarismo con l’ortodossia vetero-marxista
In definitiva il guevarismo oltre Guevara, è stato l’ispiratore di una politica rivoluzionaria di tipo nuovo, oltre l’ingessatura legalitaria e addomesticata alla politica estera dell’URSS dei vari “partiti fratelli” sia d’Occidente che del Terzo mondo e allo schematismo dottrinario di diversi altri filoni del marxismo. Sostengo questo aspetto per introdurre i quattro elementi innovativi che hanno fatto del guevarismo tutt’altro che un binario morto della storia con il fochismo guerrigliero, ma la prosecuzione di quella strategia politica propria del leninismo:
- La rottura con il legalitarismo “sempre e comunque” dei partiti comunisti ortodossi, pur senza rinunciare (tutt’altro) dall’avere un ruolo interlocutorio e propositivo con i vari campi geopolitici del Socialismo (vedremo poi il rapporto preferenziale di Cuba e delle guerriglie marxiste latino-americane con il campo sovietico); e dall’altra il superamento del dottrinarismo parolaio in particolare dei partiti trotschisti, avvitati in una sorta di insurrezionalismo utopico e rinviato sine die, che nei contesti più conflittuali poteva semmai manifestare una sorta di autodifesa operaia priva di strategia politica (leggere a tal proposito: Rivoluzione nella rivoluzione di Regis Debray)
- Essere di fatto la genesi delle sinistre rivoluzionarie nel mondo, compreso l’Occidente imperialista. In parte e in dati contesti socio-economici il contributo sul piano della teoria politica è venuto anche dal maoismo. Ma per esempio nell’Occidente, anche in paesi come il nostro, anche questo filone politico, al pari del trotschismo, non ha non ha brillato al di fuori degli schematismi dogmatici e dottrinari. Sono state le singole esperienze rivoluzionarie a prendere la forte valenza filosofica, politica e in parte strategica del maoismo (visto che i riferimenti erano per lo più sulla guerra rivoluzionaria nelle campagne).
- Avere dunque rimesso al centro i processi rivoluzionari nei singoli paesi oltre i tatticismi opportunistici eterodiretti da potenze socialiste esterne, mettendo al centro in senso leniniano la guerra di classe come sola strada per l’annientamento delle forze del capitale, la distruzione del loro Stato e l’instaurazione di un potere operaio e popolare. Del resto è nel buon senso constatare come alcuna borghesia con i suoi apparati di dominio, anche nella più “democratica” democrazia liberale permetterà mai un cambio sociale rivoluzionario al socialismo attraverso l’accettazione di una sconfitta elettorale. E laddove accaduto, ciò si è sempre accompagnato a una forza popolare d’urto in grado di ribaltare di fatto i rapporti di forza. Chi pensa per esempio che le rivoluzioni bolivariane siano state frutto di semplici confronti elettorali si sbaglia di grosso, poiché non considera l’azione politica della forze sociali in campo e delle loro avanguardie.
Il Che in Congo - Pertanto l’aver messo al centro di una strategia antimperialista e socialista mondiale l’internazionalismo. La lotta di classe in ogni paese viene vista come un ambito specifico di questo processo rivoluzionario generale. Tutto l’opposto della strategia del “socialismo in un solo paese” che da Stalin in poi non è mai stata abbandonata dai gruppi dirigenti sovietici e di conseguenza alla quale i partiti comunisti di questo campo socialista hanno dovuto seguire legando ad essa le proprie attività nazionali, o cercando di conciliarle come per esempio fece il PCI togliattiano. Ciò presuppone un’ampia autonomia politica da parte delle organizzazioni rivoluzionarie.
In particolare, lungo la seconda metà del secolo scorso, i partiti comunisti ortodossi erano rimasti un’estensione della politica di Mosca, posizione subalterna ereditata dalla Terza Internazionale e dalla strategia del “socialismo in un solo paese”. E questa impostazione non poteva andar bene a chi come Che Guevara, Fidel Castro e via via i maggiori esponenti del “foco” guerrigliero avevano la necessità di sviluppare una strategia rivoluzionaria al socialismo in generale e per le specifiche realtà nazionali.

Dunque, il guevarismo, nella sua inedita prassi della lotta armata guerrigliera, ha rappresentato un punto di rottura rivoluzionario con le tradizioni politiche del marxismo: i partiti comunisti di stretta osservanza sovietica da una parte e il trotschismo dall’altra. Ha attinto da entrambi e da altri molteplici corpi militanti nelle società latinoamericane (vedi gruppi cattolici, indigenisti, peronisti, ecc.), con un travaso dai PC (vedi in Brasile con l’ALN, Ação Libertadora Nacional di Marighella e il PC brasiliano, ma gli esempi sono tantissimi, o il PC cileno da cui nacque negli anni della dittatura pinochettista il FPMR, Fronte Patriottico Manuel Rodriguez)), e la trasformazione di organizzazioni riferite alla Quarta in eserciti del popolo (il caso già citato del Partito Rivoluzionario dei Lavoratori in Argentina, che vinta la linea del quartinternazionalista Nahuel Moreno al V Congresso crea l’ERP, l’Esercito Rivoluzionario del Popolo: altro esempio illustre).
Nel famoso scritto del Che “Creare due, tre… molti Vietnam è la parola d’ordine!” del 16 aprile 1967 sulla rivista Tricontinetal, leggiamo:
“L’imperialismo americano è colpevole di aggressione, i suoi crimini sono immensi e disseminati in tutto il mondo. Questo lo sappiamo signori! Ma è anche colpevole chi, nel momento decisivo, ha esitato a fare del Vietnam una parte inviolabile del territorio socialista, correndo così i rischi di una guerra di portata mondiale, ma costringendo anche gli imperialisti americani a prendere una decisione. E colpevoli sono coloro che alimentano una guerra di insulti e sgambetti , iniziata ormai da molto tempo da parte dei rappresentanti delle due maggiori potenze del campo socialista. Chiediamo, per avere una risposta onesta:«È isolato o no il Vietnam, mentre si ricercano pericolosi equilibri tra le due potenze in lotta?»”
Il riferimento allo scontro tra URSS e Cina è piuttosto evidente secondo un punto di vista guevarista strategico di rivoluzione mondiale attraverso processi rivoluzionari nei singoli paesi, che va oltre i tatticismi delle politiche estere dei paesi socialisti e le loro beghe.
In definitiva si comprende come la definizione militarista e specifica a un contesto di guerriglia del guevarismo, risulti un po’ stretta di fronte a queste valenze politiche che hanno rivoluzionato l’impostazione asfittica, eterodiretta, spesso palesemente attendista e opportunista dell’ortodossia post-terzointernazionalista.
Il guevarismo al di fuori e oltre gli “ismi” dello sclerotismo ideologico

Infatti, per decenni i partiti “fratelli” del PCUS, durante e dopo la Terza Internazionale erano totalmente privi di un’autentica strategia politica per la rivoluzione socialista e la conquista del potere. Nell’Occidente avanzato come nel Terzo Mondo erano partiti che scadevano nel parlamentarismo come il PCI togliattiano e post-togliattiano, che nel dopoguerra ed eliminando politicamente quadri politici come Pietro Secchia (che aveva mantenuto un’impostazione politica leniniana), aveva limitato gli orizzonti del socialismo a una “via pacifica” con la tattica della “democrazia progressiva” in un loop tutto interno alla democrazia borghese, dove il socialismo diveniva sempre più un’evanescente e utopica eventualità di un remoto futuro.
In un quaderno di appunti ritrovato dopo la sua morte, il Che aveva annotato ben 38 passi (se li ho contati bene) dagli scritti di Trotskij: dalla Rivoluzione permanente, alla Storia della rivoluzione russa, alla Rivoluzione tradita, con riferimenti diretti alla critica del “socialismo in solo paese” e alle burocrazie sovietiche (“Prima di morire” Ed. Feltrinelli).
Al Che, in poche parole, importava ben poco della divisione ultradecennale tra stalinismo e trotschismo, degli steccati politici. Un esponente politico che era stato ministro dell’industria a Cuba e affrontato la questione della burocrazia in seno alla rivoluzione aveva annotato passaggi della Rivoluzione tradita riferiti alla burocrazia sovietica. Il Che voleva comprendere i limiti e le contraddizioni che storicamente avevano attraversato il socialismo. Questa autonomia intellettuale, che era a corredo del guevarismo sin dai primi anni sessanta del secolo scorso, era tutt’altro che di impedimento alla realpolitik cubana in rapporto con quello che poi venne scelto come alleato, il campo sovietico, e che aveva portato nel 1962 alla crisi dei missili. Intanto prendeva vita la nuova concezione rivoluzionaria antimperialista per il socialismo, la visione internazionalista, di cui la concezione militare era solo il riflesso dei contesti rurali in cui prendeva piede la guerriglia, quelli che erano visti come il terreno congeniale nel Terzo mondo.
Sul trotschismo “dopo Trotskij” va detto che l’insurrezionalismo era totalmente inadeguato a determinati contesti com quelli asiatici e latinoamericani, soprattutto se la tendenza era quella di un attendismo come abito mentale ben presente in questa tendenza politica. Le critiche al “socialismo in un solo paese” non si erano trasformate in elaborazioni politico-militari adeguate per esempio alle guerre popolari centripete, ossia in paesi del terzo mondo dove le masse contadine erano preponderanti e la necessità era quella ben delineata da Mao e da Ho chimin e Giap di accerchiamento delle città. Trotskij, che fu comandante militare dell’Armata Rossa e che uscì vittorioso dalla guerra contro le armate bianche (e quindi di strategia politico-militare ne masticava), avrebbe avuto probabilmente molto da dire ai suoi esegeti.

Il guevarismo negli anni precedenti la fine del Che in Bolivia, e successivamente, seppe invece fare anche il salto nella guerriglia urbana e gli esempi più significativi li riscontriamo in Brasile, in Uruguay e in Argentina. Ogni formazione rivoluzionaria guevarista si pose il problema della rivoluzione socialista nel proprio paese e seppe sviluppare analisi sul campo in modo inedito e con metodo materialista dialettico, al netto spesso di errori politici di valutazione, ma la rottura politica era compiuta. Ed era compiuta anche grazie alla capacità, come visto, di andare oltre gli schemi e le contrapposizioni che avevano diviso il mondo comunista e i suoi grandi interpreti. Il guevarismo si basava su tutte le esperienze e le teorie di lotta armata e guerra popolare: dal maoismo a ai vietcong e nei contesti urbani con esperienze di lotta armata urbana molto simile a quella nostrana dei GAP (Gruppi d’Azione Patriottica) italiani durante la Resistenza e che ispirò successivamente altre esperienze anche in Europa, nelle metropoli imperialiste.
Che insegnamenti possiamo trarre oggi?
Faccia da spia è un film di Giuseppe Ferrara del 1975, che è possibile vedere in italiano su YouTube. È la narrazione di tutte le operazioni sporche della CIA in tre continenti attraverso militari e squadroni della morte delle dittature al servizio degli USA. Sembra di vedere quanto accade oggi. Anzi peggio, perché se togliamo il Vietnam dove gli USA intervennero direttamente, allora Pentagono e CIA si servivano dei loro gorillas, generali e presidenti rappresentanti delle borghesie compradoras per colpi di stato, massacri, torture, desaparecidos. Oggi assistiamo al peggio del peggio: oltre ai golpe come quello in Ucraina che ha portato al potere degli autentici nazisti, assistiamo a operazioni militari dirette, bombardamenti sui civili, terrorismi false flag strapagati e armati da USA, petromonarchie e Israele come Isis e AlQaeda. Non abbiamo più le armi convenzionali uscite dal secondo dopoguerra, ma fìdroni e dispositivi sofisticati di individuazione dei bersagli, di controllo step by step dei soggetti.
Oggi è peggio.
Non starò a fare analisi politiche che richiedono ben altro spazio e approfondimento. In particolare sul perché stiamo assistendo a un’aumentata aggressività militaristica e terroristica dei peggiori stati canaglia del mondo: USA e suoi alleati. Resta il fatto che dai tempi del guevarismo in poi, il capitalismo imperialista per rispondere alla sua crisi economica strutturale e sistemica e all’affermarsi di un mondo multipolare ci sta portando alla barbarie totale.
Per questo diviene sempre più patetica quella sinistra che, dimentica dei valori e della lotta per tutelare e affermare i bisogni e il potere degli oppressi, nella migliore delle ipotesi scade in un umanitarismo peloso, totalmente avulso dalle reali ragioni del capitalismo razzista, quella sinistra che si adegua a una costruzione europea che non è altro che l’affermazione di un polo imperialista sulle classi popolari, come si è visto per esempio con le vicende greche del 2015 e con l’impostazione neoliberista dell’UE e dei suoi trattati.

Dunque, il primo insegnamento è ragionare secondo una dimensione internazionale del conflitto di classe. Ciò che sta accadendo negli USA non è una semplice rivolta contro i suprusi dei bianchi contro i neri, è ormai una guerra civile a bassa intensità nel cuore dell’impero con forti contenuti di classe, in cui repressione poliziesca razzista e classista, sessismo, oppressione di masse di diseredati, che non hanno accesso a lavoro, cure, a una vita dignitosa, non troveranno certo soluzione con la vittoria elettorale dell’ennesimo tirapiedi del grande capitale come Biden.
Le premesse del guevarismo, dal Cile a Portland ci sono ancora tutte.
La seconda lezione è che il superamento delle socialdemocrazie e dei partiti comunisti ortodossi resta una conditio sine qua non per ogni ipotesi rivoluzionaria e che al di là di ogni battuta d’arresto(come quella degli anni ’80 in Italia), il percorso conflittuale deve proseguire in ogni contesto con i giusti strumenti di lotta e organizzativi possibili, in relazione alla fase politica data. Le patetiche evocazioni berlingueriane vanno lasciate ai nostalgici di un comunismo già allora inesistente.
La terza lezione, infine, è comprendere che il nemico che abbiamo davanti non fa sconti. È una questione che la sinistra completamente addomesticata alle logiche e alle dinamiche di comando spacciate per libertà democratiche e che fa da mosca cocchiera alle forze del regime imperialista come il PD non può più capire. Per il semplice fatto che non sa più chi sia il nemico ed è di fatto dall’altra parte della barricata.
Rimettere al centro la prassi leninista, di cui il guevarismo per decenni è stato l’interprete più autorevole per dialettica marxista insieme al maoismo, non significa ripetere gli errori politici del passato, riaccendere improbabili fuochi guerriglieri laddove la controrivoluzione soprattutto culturale è imperante ed egemonica sulla società. Ma non significa neppure passare il tempo in patetici flame sui social tra “stalinisti” che glissano su un’intera epoca storica ricostruendo scenari artefatti da realismo sovietico di cartapesta e troschisti che fanno la stessa cosa dall’altra parte. Zero politica, sottozero strategia… di anticaglie vetero-marxiste obnubilate dalla grande cesura della repressione e dell’oblìo politico-culturale degli anni ’70.
Riprendere il guevarismo (ma più in generale il leninismo) oggi significa avere anzitutto la consapevolezza che la lotta di classe è di fatto una guerra sociale di lunga durata contro il capitale. Vi possono essere fasi di arretratezza sociale, di assenza generalizzata di coscienza politica, ma questo non deve portare a farsi assimilare politicamente e culturalmente dal pensiero unico dell’avversario. Significa comprendere che il nemico può cambiare le regole del gioco e lo fa al momento opportuno e che se non si opera per cambiare i rapporti di forza tra classi, ogni momentanea vittoria può trasformasi in sconfitta. E quando si perde, si perde in modo non certo indolore.
Non si vince dunque per via elettorale, ma una forza sociale è necessaria per alimentare un’avanguardia politica, un programma rivoluzionario e una strategia conseguente sul piano tattico alle varie fasi che si attraversano. Senza questa forza, senza un lavoro costante, quotidiano per far crescere un’organizzazione di massa nei paesi dove esistono spazi di agibilità politica nessun processo rivoluzionario può crescere.
Per chi ha come modello politico di riferimento solo una sinistra prona al pensiero unico neoliberale con un po’ di imbellettamento “umanitario”, una rilettura dell’esperienza storica delle sinistre rivoluzionarie guevariste, valorizzandone i contenuti politici portanti, è il miglior antidoto a tutte le scorie togliattian-berlingueriane che evitano la lotta di classe e la buttano per esempio sulla morale. In linea generale e strategica, il capitalismo è in crisi, affronta le sue crisi sulla pelle dei popoli e delle classi operaie, va attaccato e distrutto, punto.
Dunque la questione è il come, non il se o il perché.
Soprattutto i giovani che si avvicinano alla politica disgustati da una classe dirigente bipartisan corrotta, protesi diretta dei poteri forti del capitale e delle potenze atlantiste, dovrebbero riprendere con intelligenza nelle lotte a cui partecipano una visione più complessiva e una chiarezza di intenti che oggi si è persa nelle tifoserie sardinesche pro o contro Salvini, o più politicamente tra seguaci di un filone ideologico-politico o di un altro… come dire Juve o Inter.
Essere sinistra non significa essere essere… sinistrati.
Rivoluzionari di grande statura politica come Lenin, Mao e Guevara sulla differenza tra comunismo e socialdemocrazia sono stati molto chiari. Ci hanno fatto capire che se un’aquila può volare bassa come una gallina, la gallina riformista non può raggiungere le alte vette dell’aquila. Una forza rivoluzionaria in altre parole può adottare forme di lotta dentro il sistema e le istituzioni (comunque non certo le più importanti tra quelle che mette in campo nell’antagonismo sociale e nell’autonomia di classe), ma tenendo ferme a tutti i livelli le prospettive più ampie di un processo rivoluzionario al socialismo che affronti con scienza e coscienza proprio i vulnus democratici dei “rumor di sciabole”, dei condizionamenti NATO, dei trattati UE, dei piloti automatici che prevedono anche automatismi repressivi e il ricorso da parte dell’avversario (Cile docet) di qualsiasi mezzo pur di mantenere o riaffermare il proprio potere. Questo è ciò che ogni comunista dovrebbe sapere e che dovrebbe essere d’orientamento per ogni forza comunista se è veramente tale e non una sua pallida caricatura.
Il “moderno principe” è un’aquila, non un pollo. Questo ci insegna il guevarismo dopo decenni di di bassa politica delle chiacchiere televisive e degli inciuci tattici a ridosso delle elezioni. Dopo decenni di internità timidamente critica ai processi di integrazione europea da parte del capitale e delle sue burocrazie per lo sviluppo di un polo imperialista continentale, dopo anni e anni di inciuci nel centro-sinistra a sostegno delle politiche di regime.
Andare al governo non significa prendere il potere. Da quei tragici giorni di settembre del 1973 in Cile sono diverse le forze rivoluzionarie che hanno imparato la lezione. Lo si capisce quando vediamo Cuba socialista o il Venezuela bolivariano con le loro forze armate popolari, quelle che Allende non volle costituire a difesa di un processo rivoluzionario concepito come riformista e pacifico, con eccessiva fiducia nella legalità e nella volontà del nemico di rispettare la volontà popolare e le sue istituzioni.
In sintesi, il popolo va armato: è questa l’unica garanzia per l’affermazione e il proseguimento di qualsiasi processo rivoluzionario. Dalla Comune di Parigi del 1871 a oggi il succo della questione non è cambiato.
E in definitiva cosa significa iniziare ad armare il popolo oggi, in una fase arretrata come questa in un paese come il nostro? Significa che le armi indispensabili sono la coscienza politica della propria identità di classe, la conoscenza, la solidarietà sociale militante, l’organizzazione e le forme di lotta adeguate alla situazione: quelle che rompono gli equilibri politici e incidono sui rapporti di forza, che creano ingovernabilità al dominio di classe, alle sue politiche, al suo ciclo di riproduzione sociale per il profitto, che creano le condizioni favorevoli per la crescita di un movimento rivoluzionario e per gli ulteriori passaggi politici verso fasi di conflitto sociale più avanzate.
Già l’avere la coscienza politica di tutto ciò, nel cretinismo politico imperante, è un primo fuoco guerrigliero…