Il 9 ottobre 1967 veniva ucciso al La Higuera, Bolivia, il comandante Ernesto Guevara.
Gli sgherri del’imperialismo yankee ponevano fine alla vita di un comunista che ha rappresentato non solo il riscatto antimperialista dei popoli oppressi nel Terzo Mondo, ma un’idea diversa e tutt’ora attuale del processo rivoluzionario, una visione autenticamente internazionalista, oltre la burocrazia di partiti comunisti per lo più legalitari e opportunisti, capaci solo di essere uffici della politica estera di Mosca, in una sorta di “socialismo in un solo paese” perenne da difendere anche nel dopo Stalin.
Ma se il Che è morto, la vita del guevarismo in sé è proseguita in innumerevoli processi rivoluzionari, poiché un altro punto sostanziale è l’aver dato vita alle sinistre rivoluzionarie dal Terzo Mondo fino al cuore delle metropoli imperialiste. Sono stati i compagni in Europa e non solo a cadere sul selciato e a subire secoli di galera a essere i veri eredi del Guevara e non certo chi ne ha fatto un’icona da mettere in una maglietta, tra berlingueriani e dottrinari vari di un marxismo in versione sclerotica e folkloristica, che vediamo anche sui social nei duelli anacronistici a colpi di tastiera tra “isti” di una fazione e “isti” di un’altra.
Se non si capisce questo, non si capisce l’essenza stessa del marxismo rivoluzionario e ci si crogiola in un nostalgico autocompiacimento di un’ortodossia più incline alla repressione che alla rivoluzione.
Rivendicare la storia della sinistra rivoluzionaria e attualizzarla ai compiti attuali, con i quali vi è la necessità di essere all’altezza di una fase sfavorevole, significa tenere la barra dritta verso quella “semplicità, che è difficile a farsi” di cui parlava Brecht: il Comunismo.