IL Nazi-buonismo della cancel culture

IL Nazi-buonismo della cancel culture

Io personalmente sono contrario in linea di massima alla cancel culture.
Un esempio? La statua del generale Lee a Richmond: voglio conoscere la storia, capire come veniva vissuta ed espressa una determinata cultura dell’epoca, per combatterla anche politicamente. Magari per proiettare simbolicamente contro la statua di Lee l’immagine di George Floyd.

Riscrivere tutto è una forma di censura falsamente libertaria, in realtà è nazismo puro, come il rogo del libri In Farenheit 451 di Ray Bradbury, chi imparava a memoria i libri non si poneva il problema che libri fossero. Erano libri e questo bastava, rappresentavano la cultura e la storia del genere umano nel bene come nel male e questa cultura va preservata. Non è questione di punti di vista di classe, di genere, di etnia, di religione. E’ che se si è comunisti lo si è perché dall’altra parte c’è chi non solo non lo è, ma è anticomunista in un sistema capitalistico.
Non è difficile da capire questa mia opinione, in coerenza con ciò che sono da sempre. Ma nel sistema del capitalismo contemporaneo, nel neoliberismo, il nazismo di nuovo conio si afferma attraverso le “rivoluzioni” colorate, il politically correct, il diritto-umanitarismo che non lo è poiché nega guarda caso quei diritti che intaccano il capitale nel suo rapporto con la classe lavoratrice. Si manifesta in tutto il suo assolutismo emergenziale attraverso la post-democrazia liberale.
Per questo al capitalismo atlantista gli sta andando male nei paesi del terzo mondo, molto male. Perché ciò che fai contro una cultura pur reazionaria che sia, lo fai anche contro altre culture antagoniste e di liberazione. Non puoi cancellare ciò che queste sono imponendo una tua visione di civiltà. E ciò si aggiunge in modo organico alla crisi capitalistica stessa.
Ma oltre a questo, ossia al fatto che anche sotto le più belle intenzioni diritto-umanitarie, in realtà si finisca per colpire la memoria storica e la cultura di intere comunità linguistico-culturali, intere koiné, l’intento di disgregare l’individuo nelle sue identità collettive e aggregative è piuttosto evidente. Sotto attacco per fomare un uomo merce di consumo e consumatore, ci sono le comunità antropologiche a partire dalla famiglia e i costumi relazionali a ogni latitudine. Con questo non voglio sostenere che non vada superato quell’insieme di legami sociali che vincolano e costringono i soggetti al loro ruolo che riproduce le relazioni sociali vigenti e alienanti. Ma con le stesso concetto di rivoluzione (colorata) si intende spezzare ogni possibilità di aggregazione che sia di intralcio alla costruzione dell’individio alienato, dell’«uomo a una dimensione” per dirla alla Marcuse.
E ciò viene fatto appunto con una sorta di “rivoluzione permanente” che utilizza con lo strumento dell’emergenzialismo, con lo spiazzamento del vivere civile, le leve di un egualitarismo formale e parziale, ossia dentro il solco imposto del rapporto tra capitale e lavoro. Utilizzando la paura e condizionando i comportamenti. Emergenza è precarietà permanente che si ripete in un surrogato di ribellismo utile e interno ai recinti della riproduzione sociale deirapporti dominanti. Basti solo vedere ciò che produce il genderismo e le manifestazioni pride dentro i recinti multiformi e multicolor concessi nelle metropoli del consumo e dell’alienazione produttiva, della mercificazione accettata dagli zombie colorati “nella città degli spettri”.
La cancel culture agisce dentro questo contesto in cui è possibile agire solo quello che è concesso e non oltre. Sicché la rivoluzione permanente (non è un caso che l’imprinting di molti dei think tank atlantisti sia il trotschismo) destruttura selettivamente solo quello che non serve o è controproducente al capitalismo in una sorta di finto antagonsimo autoreferenziale. In questo ci sta anche la destrutturazione semantica e lo stravolgimento del senso. Non è un caso che all’emergenza si accompagna la costruzione di neologismi secondo lo schema: emergenza, nemico e sua definzione stereotipata. Dal covid al clima, dalla guerra ai migranti, ormai abbiamo conosciuto il meccanismo che viene cosytruito ad arte: novax, putiniano, negazionista di questo o quel tema vissuto perché imposto come problema.
Già lo si poteva vedere dagli anni Settanta del secolo scorso nella grande famiglia semantica costruita dai media risguardo il movimento rivoluzionario di classe: terrorismo, covi, untorelli, e nipote dei banditen e del triangolo rosso. La cancel culture è la prosecuzione della prassi repressiva del capitale contro le memorie storiche e le culture dei popoliè una risposta anti-gramsciana alla strategia dell’egemonia nella lotta di classe e nell’autodeterminazione dei popoli, che non è mai un percorso lineare e privo di contraddizioni come se lo pensano i sistematici da tavolino e da manualetti marxoidi. Che poi sono gli stessi che non rispondono con una contronarrazione al mainstream dominante ma si prodigano in distinguo e in premesse che depotenziano ogni valenza eversiva dei loro percorsi. Il fatto stesso di schierarsi secondo un ecumenismo pacifista sotto le bandiere dell’ennesimo guru sinistrato che grida né e né nella guerra ucraina, e nel rendere indistinte le responsabilità secondo una narrazione di comodo che ostracizza tutta la guerra (do you remember invece Mao e le guerre giuste e ingiuste?), la guerra in sé, in quanto tale, è fattore di depotenziamento dell’antagonismo verso quello che dovrebbe essere e inviduato come tale un nemico principale, il cuore di una contraddizione sociale, politica, epocale, è un darsi la zappa sui piedi, perché poi questo ecumenismo nazifista (neoligismo…) potrà “essere usato contro di te” nella lotta politica rivoluzionaria, che ogni comunista dovrebbe avere come sbocco inevitabile e prima o poi attuabile. Farsi parlare dal potere con una falsa narrazione che alimenta una falsa coscienza.
Gramsci in altre parole e in sintesi, si sarebbe rivoltato nella tomba.