Questo che segue è solo un abstract del mio intervento che uscirà a metà novembre su carmillaonline.com
L’immaginario collettivo non è una terra colonizzata dal mainstream in eterno. E nei periodi di oblìo, quando sembra che la memoria storica delle lotte del passato si sia conclusa, in realtà non è finito un bel nulla.
L’esperienza cilena lo dimostra. Decine di migliaia di chitarre che suonano Victor Jara davanti alla biblioteca nazionale di Santiago non sono un caso. C’è un immaginario collettivo che esiste e resiste nel tempo. Un tempo che non può essere misurato in mesi o anni, ma in decenni e più.
Il popolo cileno ha risposto alla dittatura di Pinochet: lo ha fatto 46 anni dopo il golpe e con i medesimi riferimenti culturali dell’epoca.
Sono riferimenti culturali, pratiche di lotta, esperienze politiche che si ripropongono e rinnovano nel tempo, che s’innervano lungo vasi comunicanti da un paese all’altro, da un continente all’altro. A piazza Taksim, nel cuore di Instanbul, nel 2013 cantavano Bella ciao e la cantano anche in Rojava, a Bagdad, ovunque vi sia conflitto sociale, ovunque si riconosca il fatto che il movimento operaio e antifascista italiano sia stato lungo la seconda metà del Novecento l’esperienza politica antagonista più significativa in Europa e tra le più significative nel mondo.
La memoria storica è un fiume carsico che a un certo momento prorompe nelle pratiche sociali e nell’identità collettiva di una classe sociale.
Non può esistere una visione gramsciana dell’egemonia senza considerare le potenzialità sovversive della memoria storica e la dialettica che intercorre tra questa e l’andamento della lotta di classe nel divenire delle contraddizioni sociali.