Ciò che la pandemia da Covid-19 ha fatto emergere con tutte le sue implicazioni economiche e sociali, con tutti i limiti di un sistema sanitario devastato da tagli e privatizzazioni, è l’obsolescenza e l’inadeguatezza di un modello economico-sociale spacciato come il migliore in tutti questi decenni: il neoliberismo.
Ma il neoliberismo non è una scelta scevra da ogni condizione specifica e generale dell’economia: è la forma e l’insieme delle modalità politiche nelle misure economiche che assume il capitalismo attanagliato dalla sua crisi di sistema, strutturale e, a questo punto, irreversibile.
Pertanto sembra che si stia arrivando a una svolta epocale e mondiale, a una crisi di paradigma che sta provocando le prime reazioni di massa, come quella americana, il cui “colpo di pistola di Serajevo” è stato l’assassinio di George Floyd.
Ma il punto di partenza della battaglia sociale e politica qual è? Perché razzismo e discriminazioni d’ogni sorta sono gli effetti di uno status quo strutturale ormai marcio. E senza cambio di paradigma non si può parlare di emancipazione sociale e di superamento delle discriminazioni razziali, di genere, di sesso, ecc. E’ una questione che incomincia ad aleggiare più o meno consapevolmente nelle masse critiche portate all’esasperazione da un neoliberismo che se prima del covid era già fonte di miseria e devastazione sociale, oggi lo è incommensurabilmente ancora di più.
La madre di tutte le battaglie è sulla questione: o domina il privato sul pubblico o il pubblico sul privato. O si intraprende un’economia pubblica pianificata come risultato di una politica che guida l’economia o continueremo a lasciar fare ai mercati, che tradotto significa alle potenze multinazionali e finanziarie che dominano il pianeta.
Pertanto, prima ancora della questione “socialismo o barbarie”, c’è questo passaggio fondamentale politico, che riguarda la sovranità dei popoli nell’esercizio democratico della res publica che mette al primo posto un interesse generale, un riprendersi un’identità collettiva, che non è falsa coscienza retorica che mantiene il potere e gli interessi di pochi, ma riconoscersi in un comune, nella solidarietà sociale. La destra questo lo ha già capito da anni e il sovranismo si nutre delle contraddizioni del globalismo europeista e neoliberista, agitando categorie come “nazione”, “popolo”, “sangue”, “patria”, ecc. In realtà provocando guerre tra poveri e cercando di dividere cittadini da migranti, bianchi da neri, contribuendo ad aumentare la forza del capitalsimo che si basa su un identitarismo nazionalista o corporativo.
La sinistra al contrario deve liberarsi dagli orpelli politici “dem” e dal dominio di un pensiero unico neoliberale, per un’auto-rivoluzione culturale interna, primo passaggio, verso la riacquisizione del comune, di una visione collettiva declinata nel rapporto conflittuale “sfruttatori/sfruttati”, nella lotta di classe.
La “variante populista” e sovranista delle destre è solo una declinazione diversa, più campanilistica e territoriale del medesimo sfruttamento globalista e “cosmpolita” dei “democratici”. Mentre i manifestanti bruciavano e saccheggiavano i negozi di Minneapolis, a loro era ben chiaro che i proprietari di questi negozi erano quelli che avevano maggiormente osteggiato la battaglia per il salario minimo a 15$, e che molti di loro erano parte delle organizzazioni suprematiste.
La sinistra dunque, deve essere in grado di riconoscere i suoi nemici nelle loro varianti specifiche, le diverse anime o frazioni della borghesia. Per questo occorre portare la battaglia sociale sul terreno della centralità dei diritti, dei bisogni, quindi del pubblico sul privato. Questa è la porta aperta alla transizione al socialismo, che non può essere il frutto di sterili e metafisiche speculazioni ideologiche, ma deve incarnarsi nei reali processi sociali del conflitto di classe.