L’albero e la foresta

L’albero e la foresta

Ci fanno vedere tanti alberi presi singolarmente o non ce li fanno vedere affatto. Ma ormai è l’intera foresta dei domini neoliberisti del capitale ad avere focolai un po’ ovunque: Cile, Haiti, Ecuador, Catalunya, Irak, Libano, Honduras, Rojava, Venezuela, Bolivia, Brasile, Argentina… L’imperialismo del blocco a egemonia USA tenta di riprendersi l’America Latina, attacca in Bolivia cercando di invalidare le legittime elezioni che hanno visto la rielezione di Evo Morales, ma fallisce e le misure dei suoi lacché Moreno in Ecuador e Piñera in Cile vengono rispedite al mittente con vaste mobilitazioni che assumono i contorni di vere e proprie insurrezioni di massa. In Irak il regime spara sulla folla in una situazione ormai ingestibile e si potrebbe continuare.

I nostri media tacciono veri e propri crimini che fanno tremare le vene dei polsi: i cecchini di regime in Ecuador, le repressioni di massa, gli stupri dei carabineros, i morti ammazzati in piazza, i desaparecidos e le torture in Cile. Le proporzioni che va assumendo il fuoco nella foresta, la lotta di classe su scala planetaria rivela la crisi di egemonia che sta attraversando l’imperialismo USA-UE rispetto ai nuovi attori sulla scena mondiale: Russia, Cina, India in particolare, che creano nuove piazze economiche e rompono isolamenti mortali come quelli contro Iran e Venezuela, e ora anche sul terreno di una tenuta del dogma finanziario e di rapina neoliberale.

Sì, perché mentre nei paesi a capitalismo avanzato dell’Occidente come quelli della catena imperialista europea, esistono ancora “posizioni di rendita” nei risparmi, nei diritti sociali in via di smantellamento, in classi medie in crisi ma non ancora consapevoli dell’irreversibilità della fine dei patti sociali novecenteschi, nelle Americhe del centro e del sud, in Asia, in Africa, la povertà è sempre più dilagante in proporzione ai lauti ed esorbitanti profitti ottenuti dalle politiche usurarie del FMI e della Banca Mondiale e dalla rapina di ieri, proseguita oggi e sostenuta da gruppi dirigenti locali corrotti e collusi. Tradotto in soldoni, se nella media die paesi europei e negli stessi States ce ne è ancora per un po’, nel terzo mondo non ce n’è più soprattutto dopo 150 di predazione forsennata. E a questo si aggiunge la devastazione ambientale, la distruzione di interi contesti economici e sociali locali di fronte alle enclosures sull’acqua, alle monocolture intensive, all’estrattivismo selvaggio, alla moneta capestro del franco africano e a tutte le forme di impiccagione economica imposte dall’Occidente atlantista.

La tendenza però è l’estensione della lotta di classe dai paesi della periferia, le bidonville del mondo, ai centri metropolitiani dell’imperialismo. In conaidewrazione del fatto che le bidonville ormai sono anche qui da noi e di contro la gentrificazione delle aree urbane disegnano una grande metropoli sempre più polarizzata tra periferie del degrado da una parte e salotti del consumismo di lusso dall’altra. E nell’immaginario del popolino l’arrivo dei migranti rappresenta lo specchio più atroce del suo misero destino che l’oligarchia gli riserva. Il razzismo nasce perché nell’immaginario collettivo la narrazione impone la falsa coscienza di una libertà di mercato alla quale tutti possono accedere, di un ascensore sociale che funziona, ma che in realtà non funziona più. Questo aspetto è tanto più evidente nelle “rivoluzioni colorate” come nell’Est Europa, a Hong Kong, dove le piazze si mobilitano nel nome di una democrazia che altro non è che “libertà” dell’uomo qualunque di votare chi gli metterà i ceppi dello schiavo precario e salariato, condizionato dai media, dalla società dello spettacolo, veicoli del pensiero unico neoliberale.

Dunque, in questo contesto si tratta di scegliere: o con la restaurazione ammantata talvolta di libertarismo cosmopolita, magari d’impresa (vedi tutto l’impianto post-operaista che “destatalizza” nel nome di un’ambigua libertà delle moltitudini), ma che nei casi di maggiore frizione sociale ridiventa violenza classista, tortura, repressione di massa, oppure con le esperienze, magari non perfette, ma portatrici di una visione collettiva, egualitaria nei diritti e nella ridistribuzione della ricchezza sociale, che sono per esempio i governi popolari bolivariani. Con le rivolte sociali che hanno veramente basi sociali di classe e obiettivi di emancipazione dalla macelleria sociale neoliberista.

Non è una scelta puramente ideologica, ma di necessità vitale di fronte alla frana capitalista di cui anche qua iniziamo a vedere le avvisaglie, perché un conflitto senza avanguardie politiche, culturali, non si sa mai dove va a sfociare. E la stessa Italia è piena di sommovimenti anche in contraddizione tra loro, che sono privi di qualsiasi forma di rappresentanza organizzata, o se volete di autorganizzazione unitaria, di una direzione politica coerente delle lotte sociali.

Un vulnus che spetta a noi marxisti rivoluzionari colmare.