Con la guerra in Ucraina, ciò che è balzato più in evidenza è il ruolo totalmente passivo dell’Unione Europea. Al di là dei timidi tentativi franco-tedeschi per ventilare un ruolo europeo nel contenzioso di questa guerra per procura, il dato di fatto è che l’Unione Europea segue pedissequamente la linea interventista statunitense, ma nel contempo quando deve prendere una posizione comune, le posizioni in realtà sono diverse: da un’Ungheria che vuole sfilarsi dalle sanzioni sul gas russo (magari mandata avanti furbescamente dai tedeschi) a un’Italia che con Draghi rappresenta in questo momento la linea più aderente ai desiderata bellici di Washington.
Eppure, la questione è di una semplicità disarmante anche per un comune cittadino europeo a digiuno di geopolitica: questa guerra rischia di deflagrare in tutto il continente, lo scopo Usa di prolungarla o di estenderla è chiaro, ossia indebolire e separare le potenze del vecchio continente, la Russia dal resto dell’Europa, soggiogando e mantenendo il controllo economico e dentro l’area del dollaro protagonisti mondiali che se uniti avrebbero risorse, tecnologie, mercati con un affaccio terrestre diretto sul mondo asiatico. Un’eventualità mortifera per l’egemonia unipolare degli USA.
Si può dire che sin’ora la linea statunitense è stata predominante attraverso la NATO. È di queste ore la presa di posizione del Segretario Generale della NATO Jen Stoltenberg in cui dice:“La Nato non accetterà mai l’annessione illegale della Crimea” sostenendo che l’Ucraina “Deve vincere la guerra”, il che equivale a precludere ogni possibilità di trattativa basata come logica vuole sull’attuale situazione sul campo e sui dei dati di fatto pregressi (referendum e conseguente annessione della Crimea alla casa madre Russia).
Dal punto di vista delle ecenomie e ella tenuta sociale dei paesi europei, a partire dai grand manifatturieri come Germania e Italia, è evidente che una simile linea non porta a nulla di buono sia sul piano dei rischi bellici, che dei sacrifici e dei costi economici e sociali che i paesi europei dovranno affrontare per un politica d’oltre oceano che è del tutto ostile ai loro stessi interessi.
Ma se Draghi vola a Washington per concordare gli sviluppi con gli USA lungo una linea di vassallaggio tra i più servili già tracciata, e se il PD, dopo le ultime dichiarazioni retoriche di Letta, si conferma come il più fedele assertore di un atlantismo belliscista a stelle e strisce, c’è chi negli ambienti del grande capitale nostrano inizia ad avere dei mal di pancia e dell’insofferenza. L’intervista a De Benedetti sul Corriere della Sera è piuttosto eloquente (qui). Oltre a esprimere la sua contrarietà all’invio di armi, poiché ciò fa presagire una guerra di lunga durata, De Benedetti arriva addirittura a parlare di un’obsolescenza della NATO.
Questa presa di posizione ci fa capire che i mal di pancia anti-atlantisti sono trasversali e coinvolgono anche quelli che sono i referenti economici diretti dell’area dem italiana.
Non solo: nostante la campagna martellante di propaganda che traborda da tutti i media mainstream, i sondaggi ci dicono che la maggioranza degli italiani sono contrari all’invio di armi e alla guerra. E la situazione sul fronte dell’opposizione alla politica dominante del governo e delle forze di regime è ben diversa rispetto a quella di qualche mese fa, della caccia all’untore “no vax”. Il tormentone contro i “putiniani”, appena fuori dai salotti televisivi non regge più.
In definitiva, c’è tanta tela da tessere sul fronte anti-guerra italiano e non solo. Anche la questione sociale di un’economia di guerra alle porte, ha la doppia valenza di rivendicazioni essenziali sul lavoro, i salari, i servizi, il costo della vita, ma anche come pressione pacifista contro i venti di guerra sempre più mefitici e allarmanti.
Infatti se le mobilitazioni contro la guerra dei decenni passati non avevano un aggancio diretto con le tematiche sociali, essendo guerre “altrove”, senza un’incidenza particolare sulle condizioni sociali, economiche, di lavoro della popolazione, oggi questa guerra, anche se più lontana geograficamente di quella contr la ex Yugoslavia, interessa sia la condizione economica a causa delle sanzioni e della rinuncia imminente alle forniture di gas russo, sia la connotazione stessa della guerra potenziale nella sua estensione al resto dell’Europa, dato che fa dell’Italia un paese in prima linea per la sua dotazione di testate nucleari in contesto di utilizzo reciproco di armi atomiche.
Questa qualità diversa della guerra, che ci fa essere partecipi sin da ora per le scelte scellerate della NATO per conto degli USA, è stata avvertita dalla popolazione italiana, ossia da interi settori sociali del lavoro e dell’imprenditoria. Per questo occorre uscire dal loop di un pacifismo esclusivamente “di sinistra” e raccogliere le forze sociali d’opposizione al bellicismo NATO e del governo Draghi in un fronte di lotta unitario, considerando che la posta in gioco val più di qualsiasi logica di scuderia.
Il rischio è che le solite organizzazioni autoreferenziali della sinistra marginale restino ancorate ai vecchi schemi, utilizzando categorie come “i cattolici”, l’associazionismo e via dicendo. Quando in realtà una gran parte dell’opposizione sociale per esempio è cresciuta e si è sviluppata contro le restrizioni autoritarie sulla pandemia, green pass in primis e che questa opposizione è stata trasversale a tutte le categorie sociali. Il movimento contro il green pass in queste settimane sta scendendo in piazza contro la guerra e la NATO, al netto di tutte le contraddizioni politiche che solo una visione marxista del conflitto può sciogliere e al netto della litigiosità tra le varie piccole realtà in lizza tra loro e che si stanno già preparando a liste elettorali.
Ma quello che conta sono le masse in movimento: questo dovremmo tornare a considerare se vogliamo costruire un’opposizione sociale e politica che incida sui rapporti di forza nel conflitto di classe.
Ci sarà chi è in grado di comprendere appieno la situazione e di muoversi in questo senso? Al momento non vedo chi.