È una falsa opposizione di opposti e vado a spiegare il perché. È molto semplice: in un sistema capitalista, ossia dove vige la valorizzazione del capitale, la realizzazione del plusvalore e dei profitti, si è visto che si usa il mercato e il piano a seconda delle fasi, dei cicli del capitalismo, dei rapporti di forza tra componenti sociali, a seconda del contesto geopolitico.
La falsa opposizione piano contro mercato non ci dice nulla poiché spesso il piano serve il mercato, magari fingendo di servire i bisogni sociali, perché siamo in un capitalismo di stato in cui una burocrazia deve creare i presupposti per la sua egemonia e quindi punta a una stabilità sociale. Oppure siamo in un capitalismo tout court, al di là che parte dell’oligarchia al potere si chiami partito comunista cinese o braccobaldo bau.
Oppure il mercato serve il piano e torniamo all’egemonia oligarchica e buocratica di stato. Non se ne esce da questa falsa coscienza economicistica e tecnocratica.
E allora chiediamoci cosa manca. Semplice manca il socialismo, ossia una società dove il processo di socializzazione dei mezzi di riproduzione sociali si muove lungo l’asse dei bisogni sociali, sulla gestione socialista, ossia della democrazia socialista dei consigli e non la burocrazia d’apparato. Dove al centro c’è il popolo e non il profitto, dove il valore di scambio nella transizione socialista al comunismo cede la sua priorità al valore d’uso.
C’è socialismo nella finanza privata e nelle multinazionali cinesi? E nelle forti disparità salariali? Nell’ingessatura del conflitto sociale, dove il partito ha il ruolo di pompiere se non repressore? C’è forse socialismo nella creazione di una vasta classe media, nella creazione delle infrastrutture adeguate a creare il suo vasto cocoon, sull’ipersfruttamento dei lavoratori migranti dalle campagne, come ci ha ben destritto la Pu Ngai? È socialista la polarizzazione salariale, i mandarini di stato e partito che girano in Ferrari, i modelli-feticcio consumistici dell’occidente, la patente a punti (credito sociale) sui comportamenti delle persone?
Se non si capisse che la risposta è già nella domanda, faremmo un’offesa all’intelligenza di qualsiasi onesto marxista.
La vera opposizione è piano socialista contro mercato, perché quello che realmente conta è in due fattori:
chi comamda, ossia chi gestisce la società
La mia convinzione è che la parola d’ordine xijinpinghiana dello sconfiggere la povertà è solo vuota retorica dentro strutture e apparati che hanno troppi interessi di casta nella produzione sociale, nelle varie aziende e asset dell’impero cinese. Del resto, ogni politico che voglia accattivarsi il popolo fa un simile proponimento. Anche un regime fascista.
Pertanto i comunisti filocinesi seguono solo il livello superficiale della retorica, i comunicati ufficiali. E sappiamo bene che l’analisi marxista non è un’analisi di superficie, che si accontenta delle cose dichiarate e delle pie intenzioni.
Se vogliamo vedere la questione da un reale punto di vista rivoluzionario, la contraddizione tra capitalismo e socialismo non si è risolta solo con la caduta dell’URSS e dei suoi paesi socialisti fratelli, ma “con la sconfitta della Rivoluzione Culturale a oriente e la sconfitta dei movimenti rivoluzionari in occidente: negli anni 70 si consuma la fine del comunismo storico reale. Tale sconfitta è culturale e militare.
Prima si capisce e prima si può ricominciare”. Così osserva un compagno con cui sto condividendo queste riflessioni.
Politicamente maoismo e guevarismo sono state le due esperienze generali del socialismo scientifico articolato nella prassi rivoluzionaria, interessando la lotta di classe e antimperialista nei paesi del terzo mondo, fino alle metropoli imperialiste, sebbene la gran parte delle esperienze si siano svolte nei contesti rurali nella forma di guerre popolari centripete.
Recuperare la Cina oggi è revisionismo puro, poiché dietro le logiche tecnocratiche per il benessere popolare di Xi Jinping c’è l’ombra di Deng Xiaoping. E non mi si può contestare che questa è una riflessione ideologica, perché il revisionismo cinese è nei fatti, nella realtà della forte integrazione di capitali tra occidente e Cina, negli investimenti di Blackrock, nella burocrazia corrotta, nel dominio classista di un’oligarchiache va dal partito che di comunista non ha neppure l’odore e la gande proprietà privata della finanza. E non si può spacciare per socialismo un welfare che comununque è incistato in una contraddizione sociale molto forte, nella polarizzazione tra grandi ricchezze e classi salariate al cui al loro interno esistono egualmente forti disparità, dove la forza-lavoro interna dalle campagne alle metropoli ha la stessa funzione dei nostri migranti sfruttati nei campi di pomodori. In tutto questo non c’è socialismo.
Nella migliore delle ipotesi mi si spaccia il piatto di lenticchie e non per tutti (ma Xi Jinping vuole sconfiggere la povertà…) per sistema socialista. Oltre che revisionismo, ciò è un vero e proprio imbroglio, o ignoranza di chi non vuole vedere un capitalismo di fatto e s’aggrappa a delle mere icone a stelle gialle su campo rosso da veri orfani di piccoli padri.
E anche a vederla sul piano tecnocratico, lo sviluppo cinese si fonda non su “magnifiche sorti progressive” ma su queste asimmetrie nelle condizioni sociali, su queste disparità sociali funzionali a uno sfruttamento spregiudicato che solo lotte sociali autonome (non certo di partito) e spesso brutalmente represse vanno a contrastare. La lotta di classe non è lungo l’asse Cina-Occidente, ma dentro la Cina stessa, al di là di ogni visione confuciana e denghista che punta a mettere una pietra tombale sulla teoria marxista e maoista della contraddizione.
È per questo insieme di ragioni che sostenere come fa Franco Piccioni:
“L’elemento essenziale distintivo tra regime capitalistico e “socialismo in costruzione” – andiamo ripetendo da tempo, con gradi di approssimazione, speriamo, sempre più precisi – è secondo noi la relazione tra Stato e mercato, tra pianificazione e “anarchia” della “libera impresa”. (dall’articolo: https://contropiano.org/news/politica-news/2022/01/01/tra-stato-e-mercato-la-cina-e-loccidente-neoliberista-0145335?fbclid=IwAR1_B6nxb4bK8M9K4i7GF645C0dYvMF8wldwBRJPwVUhrFO1LHQvDznfQIk)
si fonda sostanzialmente su un grande abbaglio. Se seguissimo il suo ragionamento allora ciò significherebbe che laddove nella summenzionata relazione lo stato acquisisse un ruolo pianificatore avremmo una transizione al socialismo. Ma è precisamente questa a essere pura astrazione. Allora diciamo che si andava verso il socialismo nell’Italia del dopoguerra, confondendo così il keynesismo con il socialismo stesso. Oppure la Malesia di oggi è socialista, no? Il 70% della sua economia è composta di imprese statali: molto più della Cina, 68mila imprese.
Inutile dire che un simile approccio porta a non affrontare in concreto il nodo del socialismo: quale classe e insieme di settori popolari è egemone, la socializzazione dei mezzi di produzione (di riproduzione sociale), che storicamente dirime la questione per cosa si produce e per chi, profitti o bisogni sociali? Ma torniamo alla domanda iniziale: piano e stato per cosa? Siamo sicuri che l’”anarchia della produzione” sia pura? Eppure il capitalismo ha vissuto fasi economiche in cui lo stato aveva ruoli diversi e tutto questo non aveva a che fare con una rottura rivoluzionaria e con il socialismo. Ecco dunque il revisionismo che rientra dalla finestra.
Vedere nella Cina il socialismo in definitiva significa fermarsi su un solo aspetto e per altro piuttosto contraddittorio in questo grande paese, glissando su tutto il resto.
Nel capitalismo globale c’è quel blocco di potenze imperialiste che ha fondato la sua pratica economica sul liberalismo più sfrenato e c’è nell’altro emisfero un capitalismo che non chiamerei più nemmeno di stato, che ha un’altra ricetta, che forse può piacere di più perché c’è un partito sedicente comunista che in realtà fa da camera di compensazione tra più interessi sociale e che i prevalenti sono quelli di un’oligarchia che è distribuita nel partito, negli apparati dello stato centrali e periferici, nelle banche, negli incubatori di Think tank delle università (molte gemellate con quelle USA e occidentali). Che può piacere di più perché nelle risoluzioni del partito si parla di uscire dalla povertà (sic!) esattamente come fa Putin, Biden e qualsiasi altro dirigente di ogni paese… c’è forse qualche cretino che dice viva i ricchi?
Infine che può piacere di più perché nella crescita tumultuosa di questo paese certamente interi settori sociali escono dalla povertà, si forma una gigantesca classe media, perché per il mercato interno vengono costruite infrastrutture, perché lo stato non ha i vincoli della politica occidentale nella gestione delle crisi e si mostra più coeso in interventi come per Evergrande. Ma tutto questo è socialismo?
È socialismo la crescita tumultuosa stessa, che è costata al popolo cinese alti livelli di sfruttamento e condizioni di vita miserabili per vaste categorie sociali nella migrazione dalle campagne alle metropoli, e per interi comparti del lavoro? È socialismo la crescita tumultuosa che si è basata sulle filiere del capitale occidentale negli immani processi di esternalizzazione? È un socialismo che giova a un processo rivoluzionario interno e generale, o che costruisce un’interdipendenza tra potenze nei mercati?
È socialismo un sistema in cui si parla di sconfiggere la povertà, ma che secondo le regole del capitalismo, che sia privato, di stato a sistema misto, si basa sulle disparità? O si crede davvero che basti il piano e lo stato al centro per superare in una società di mercato questa contraddizione?
Stato e piano non bastano.