Anche oggi arrivano notizie dagli USA: bandiere bruciate, statue buttate giù, i nativi americani che contestano la kermesse di Trump in Oklahoma.
Negli USA sta accadendo qualcosa: la lotta di classe. E se accade lì, questo avrà (e sta già avendo, vedi il Regno Unito) ricadute in tutta l’area dei paesi a capitalismo avanzato.
I nostri bugiardoni riducono il tutto a mera questione razziale, aspetto importante certo, ma che non spiega però che le attuali lotte e proteste vedono soggettività multicolori: afroamericani, bianchi ridotti alla miseria, latinos, proletariato e ceti medi proletarizzati portatori di temi sociali, come miseria, disoccupazione, previdenza inesistente, sfratti, pignoramenti, violenza poliziesca nei quartieri ghetto, che costituscono essenzialemente due aspetti dirimenti: ricomposizione di classe e lotta di classe.
Nel mio pezzo di ieri su Carmilla (passato quasi del tutto inosservato) ho voluto mettere l’accento su questo pocesso di conflitto sociale, che ha una portata politica ben diversa da quella già forte e prolungata dei Gilet Jaunes in Francia o della rivolta cilena contro i provvedimenti di Piñera l’anno scorso in Cile.
Se allarghiamo lo sguardo, vediamo che dai primi fuochi di scontro sociale in alcuni punti caldi del sistema neoliberista siamo arrivati al suo cuore pulsante, l’epicentro del comando internazionale, del regime del dollaro e delle cannoniere 4.0: gli USA. E questo non è poco.
Ecco perché sardelle varie e sinistrati umanitaristi a chiacchiere si premurano di ridurre tutta la questione a quella di autentiche dame di sanvincenzo contro il razzismo.
Una sinistra di classe e di lotta che non vede questo passaggio di fase, non è neppure in grado di attrezzarsi per lo scontro imminente, lasciando il campo ai populismi reazionari, facendo loro il verso come fa qualcuno. Ora si capisce bene il grande abbaglio di quella sinistra rossobrunizzata che ha iniziato a parlare di “invasione” dei migranti.
La questione nazionale italiana, che c’è ed è l’aspetto dirimente nella lotta per la rottura con l’UE, i suoi trattati e la sua moneta, l’aspetto della sovranità popolare contro una forma di cannibalizzazione neocoloniale interimperialista dominante, non si può trattare con un approccio meramente “patriottico”. La questione dell’internazionalismo popolare e proletario torna prepotentemente e marxianamente evidente nella strategia politica dei comunisti.
Mi fermo qui, ma mi pare evidente che siamo un po’ indietro compagni. Ma sappiamo veramente ascoltare cosa ci dicono i nostri compagni di Oltreoceano? Qual è l’insegnamento anche per noi? Ovviamente al netto di tutti gli aspetti positivi portati avanti con il sindacalismo conflittuale, dai campi dell’agroalimentare dominati dal caporalato del Mezzogiorno (e non solo) alle lotte nella logistica, alle lotte per la casa, alle centinaia di vertenze e all’unico tentativo di ricomposizione politica degno di nota in Italia e che può dare prospettive alla sinistra rivoluzionaria: Potere al Popolo.
(Immagine in evidenza: statua di Jen Reid realizzata dallo scultore Marc Quinn, attivista BLM, che ha preso il posto di quella dello schiavista Edward Colston a Brixton, Londra)