Riflessioni sulle due varianti sistemiche del capitalismo

Riflessioni sulle due varianti sistemiche del capitalismo

Il coronavirus sembra essere figlio dei tempi in cui il mondo si ritorce su sé stesso, tra sovranismi e chiusure di frontiere, dazi, interruzioni di flussi di persone forza-lavoro, merci, risorse. In realtà la tendenza espansiva del capitalismo ha trovato nella caduta tendenziale del saggio di profitto, dunque nella crisi di valorizzazione, che è sovraproduzione di capitali e di merci (non ultima l’eccedenza produttiva per eccellenza: il lavoro vivo, la forza-lavoro), il suo limite, in una sommatoria di risposte soggettive che mettono in crisi anche la globalizzazione. Ossia, la necessità vitale per il capitale di riempire ogni angolo della terra mettendolo a profitto, in quella competizione selvaggia che contrassegna la crisi strutturale e sistemica del capitalismo, uscito da circa trent’anni dal bipolarismo con il sistema socialista.

Non è dato sapere se il nuovo mostro virale sia nato da prove di laboratorio e sia stato messo in circolazione ad arte proprio in quell’area del pianeta che traina insieme agli USA l’intera economia mondiale. Ma questa specifica fase segna un passaggio nella tendenza alla chiusura dei flussi economici della globalizzazione e all’ascesa del local thinking, degli stati-nazione, accompagnati dal ristagno delle economie e da una regressione culturale relativa alla chiusura stessa. La crisi cinese non è solo crisi di una nazione seppur enorme, è crisi inoculata “dall’esterno” delle dinamiche economiche e sociali di quel paese, la cui economia, va ricordato, è sempre cresciuta molto più di tutte le altre. Dato il grado di integrazione tra blocchi di potenze capitalistiche (di cui la Cina è parte con la sua economia mista) e reciproca compenetrazione economica, se ciò fosse stato il frutto deliberato di qualche mente insana, sarebbe come segare il ramo su cui si è seduti.

Dunque, quello che dovrebbe essere chiaro a un corpo intellettuale e a una politica progressista, è che sia la variante globalista che quella sovranista non portano da nessuna parte. Anzi, ci conducono esattamente al disastro generale di una guerra o di varie guerre nei rispettivi quadranti, e a un neoliberismo sempre più selvaggio internazionale ed interno ai singoli paesi.
L’unica vera prospettiva mentre si aprono sempre più contraddizioni e crisi nel corpo ipertrofico del capitale, è quella di un superamento di sistema del capitalismo stesso e l’edificazione di una società sempre più gestita dal pubblico, socialista, in grado di pianificare produzione e riproduzione, bisogni, flussi di merci e risorse, in base al criterio guida del valore d’uso e di un rapporto armonico della comunità umana con l’ecosistema e quindi con la natura.

Eccedenti non sono i popoli ridotti a forza-lavoro, a eserciti industriali di riserva, ma i capitali accumulati e circolanti non valorizzabili, che devono cessare di essere strumenti di dominio classista delle oligarchie sui popoli stessi e le classi lavoratrici. Un’eccedenza che dapprima va ridotta in una redistribuzione equa della ricchezza sociale, di riappropriazione di reddito a partire dalla fasce più basse della società, di pianificazione di queste risorse verso il bene comune della salute, dell’istruzione, dell’abitare, del benessere in generale dei cittadini. Per poi cessare di esistere nella società come valore di scambio e profitto, come unità di misura del lavoro e della vita dell’intera umanità. Il comunismo.