Sovranità popolare

Sovranità popolare

Sono diversi anni che una parte dei comunisti italiani, sulla base di un’analisi dell’Unione Europea quale polo imperialista che si è formato in questi decenni, ha avviato un dibattito sulla sua morfologia imperialista, ma anche ponendo in chiave marxiana la questione nazionale.
C’è chi è arrivato persino a parlare di una sorta di neocolonialismo tedesco verso i paesi dell’area sud europea come Italia, Spagna, Grecia… cosiddetti pigs, maiali.
Ross@ prima, Eurostop poi hanno sviluppato questo percorso di analisi, formulando come percorso concreto e di prassi l’uscita dall’UE e dall’Eurozona, non solo dalla NATO.

 
Ora, è evidente che la questione nazionale, forse per una sorta di timore di prendere una piega nazionalista è finito in cavalleria con Potere al Popolo. Insieme a parole chiare per un’uscita dall’UE. Parola d’ordine di cui si sono appropriate forze ambigue come Paragone con “Italexit” (parola che si usava in Eurostop).
 
Io non penso che vi sia contraddizione tra questione nazionale e internazionalismo. Non lo è mai stata nelle sinistre latinoamericane che hanno parlato di patria nella lotta antimperialista, anche se va detto che in quei casi il colonialismo e il neocolonialismo sono pertinenti alla lotta di classe di quei paesi, riguardo l’imperialismo dei paesi a capitalismo avanzato.
 
Nel nostro caso non parlerei di neocolonialismo tra paesi imperialisti di punta come la Germania e paesi imperialisti minori come il nostro. Abbiamo ceti medi conflittuali contro il grande capitale, ma il carattere della lotta di classe non è anticoloniale e di passaggio a una rivoluzione democratico-borghese, che in un certo senso è l’orientamento politico delle forze che si sono candidate a ricoprire il ruolo populista di rappresentanti di tali ceti.
E non veniamo neppure utilizzati per risorse estrattive come capita per i paesi del terzo mondo: il controllo è sulle filiere, attraverso le quali si ha una concentrazione dei capitali verso le multinazionali e non solo europeee, realizzando una divisione sociale del comando capitalista e una gerarchia tra le diverse frazioni borghesi e di capitale.
Pertanto, nella precarizzazione e proletarizzazione di vasti settori di piccola borghesia, la contraddizione di classe e non quella prettamente nazionale è la questione fondamentale. E le spinte alla sovranità nazionale, sul piano del marxismo vanno viste in questa ottica e non certo in quella di un nazionalismo borghese, sciovinista, che poi è la base ideologica e culturale non solo dei fascismi, ma anche di una visione coloniale e predatoria della borghesia verso gli altri popoli, una volontà di potenza che esiste anche nei “perdenti”, nei sistemi economico-sociali capitalistici più deboli. Esattamente come i padroncini sono i neolberisti perdenti, poiché è assodato che verso la classe lavoratrice gli uni e gli altri, i grandi capitalisti come i piccoli usano le stesse modalità di sfruttamento e lo stesso modello padronale di massimizzazione dei profitti attraverso lo sfruttamento salariato e del lavoro subordinato.
Pertanto, quando si parla di sovranità l’aspetto saliente non è la nazione, ma il popolo, la questione è la sovranità popolare, che è politica, economica, alimentare, sulla salute, l’istruzione, e riguarda il controllo dell’economia da parte dello Stato, di una comune rivoluzionaria dei consigli e in divenire la socializzazione dei mezzi di riproduzione della società.
Ma se non c’entra la nazione, occorre però guardare all’oggettività dei rapporti di subordinazione e predazione tra le diverse entità nazionali, che avviene nella relazione tra capitale immateriale della turbofinanza ed economia reale di prossimità, tra fondi e multinazionali che hanno interessi basati sul globalismo dei mercati e settori sociali che hanno ragione di esistenza e di vita economica ancorata al proprio territorio.
E’ evidente che quando da questa contraddizione si producono conflitti sociali, il richiamo ideologico a questa appartenenza è automatico.
In questo senso riporto delle considerazioni fatte da un amico, Spatto, che di marxismo ne macina da sempre, proprio a proposito dell’esplosione conflittuale a livello mondiale nata dalle varie gestioni biopolitiche tecno-autoritarie fatte dalle varie oligarchie nei paesi dell’Occidente (ma non solo):
 
“In TUTTO il mondo si manifesta con bandiere nazionali e canti nazionali.
Dobbiamo essere marxisti e chiederci il perché di tutto questo prima di accursare un movimento mondiale di essere cosa. Nazista?
Fascista?
 
Credo si tratti semplicemente di populismo nazionale.
 
Nazionale perché di fronte al globalismo apolide della merce l’unica possibile resistenza al mondo postomderno e post religioso / ideologico sono le comunità nazionali e territoriali rimaste.
Residui di un passato ma fonte della costruzione di senso in un mondo in vorticoso cambiamento. Il grande reset del capitale appunto.
 
Non significa nazionalismo. Anche. Ma non sempre.
Come il no tav non significa primitivismo economico.
 
Indica soltanto la rivolta popolare contro i dominanti.
La difesa del perimetro dell’essere contro la tecnica e la moneta.
La ricerca di un senso nella semplice appartenenza a qualcosa in opposizione alla finanziariarizzazione e spersonalizzione del mondo.
 
La rivoluzione procede per vie carsiche e mai uguali.
Prima lo capiamo e prima possiamo lottare per l’egemonia di tale movimento di massa mondiale.”
 
Sono parole, queste, molto eloquenti, che dovrebbero indirizzare l’azione politica dei comunisti dentro l’onda di questi movimenti popolari, che al netto degli appigli ideologici e culturali più immediati, hanno ragioni da vendere.
 
L’aspetto della comunità nel territorio che si esprime con una pars destruens: la disobbedienza, il boicottaggio, lo sciopero selvaggio, la rivolta e una construens: le comunità che fanno rete, il green book dei soggetti solidali (esercizi commerciali, servizi no green pass…) come quello delle comunità afroamericane, l’autogestione delle cure, i circuiti alternativi dell’alimentazione di prossimità, il mutualismo, le casse operaie, le varie espressioni di solidarietà sociale nella crescita politica di popolo e classe per sé, è un aspetto fondamentale di contropotere o potere costituente chiamatelo come volete.
Mettiamoci bene in testa che non ce la caveremo bypassando la questione della lotta a queste restrizioni, che sono la punta di lancia dell’attacco capitalista alle classi popolari nel suo processo di ristrutturazione economica e sociale, direi anche antropologica, della società. Ogni rifugio economicista pur lodevole perché di lotta sul campo, non può essere il surrogato di una lotta politica che vasti settori della popolazione in modo spontaneo stanno conducendo per mille ragioni, giuste o sbagliate che siano.
Non ce la caveremo contando con disappunto le bandiere tricolori, dopo per altro aver fatto i nemo profeti in patria della questione dell’UE e dei dispositivi predatori del grande capitale (in prevalenza estero, alleato con il nostro parassitario): c’è un’incongruenza.
Se le spinte populiste hanno un impronta nazionalista, sta in noi lavorare per una visione di classe, nella pratica di comunità, di difesa dei bisogni e degli interessi di un territorio che tenga conto della diversificazione e complessità di un corpo sociale sempre più recario.
Altrimenti facciamo solo ideologia, esattamente come i nostri avversari.