E così in questo contesto schizofrenico, ti fanno stare a casa, ma devi uscire per andare a lavorare. Ti comminano un’ammenda o peggio se porti a spasso il cane, ma puoi fare ressa nelle tradotte del pendolarismo per andare nelle Mauthausen confindustriali che non ti garantiscono né presidi né distanze di sicurezza.
Governo e governatori regionali sono in un loop demenziale e intanto il virus prolifica, il contagio si estende. Non si ragiona sul fatto che la massa di pazienti in coronavirus che hanno invaso gli ospedali di Bergamo, Brescia, Piacenza, Cremona non sono altro che i contagiati da lavoro nei comprensori industriali, della logistica, della manifattura, nel cuore pulsante dell’economia nazionale.
Possiamo dire che Confindustria stia completando l’opera insieme al ceto politico con il quale compone il regime capitalista italiano. Decenni di privatizzazioni, tagli in ogni settore, di fondi, di personale, chiusura e depressione di interi comparti produttivi, delocalizzazioni, riduzione dell’industria italiana a batustan al servizio delle filiere del nord Europa, Germania in primis, trasferiemento di denaro pubblico in opere privatistiche inutili come la TAV, prebende, concessioni al costo di due noccioline, commistioni dei comitati d’affari con la criminalità organizzata. Ce ne sarebbe da riempire i lampioni di corpi penzolanti da qui a Roma, tra responsabili e sodali, nei mezzi d’informazione e nell’editoria, nella politica, nelle università, con le baronie nel sistema sanitario. Metaforicamente parlando ovviamente. Ma se dovessimo veramente uscire da questo incubo, nessun vero cambiamento può avvenire senza l’esclusione dalla vita politica ed economica dell’attuale classe dirigente. Un cancro per il paese che va estirpato con mezzi straordinari per un ricambio politico e gestionale che passa da criteri decisionali verticistici a un consiliarismo popolare sul modello dei soviet com’erano originariamente, ad affiancarsi a una vera democrazia rappresentativa.
Già questa premessa costituirebbe la parte iniziale di un programma minimo, a cui seguirebbero le scelte di fondo che determinano le vere distanze salvifiche: quelle nei confornti dell’UE e dei suoi vincoli capestro. Accettare i prestiti con o senza MES significa infatti appoggiare la testa Italia sul ceppo in attesa del boia che con certezza adamantina apparirà alla fine di questo tunnel per grecizzarci per bene. Quelle delle nazionalizzazioni e del ruolo centrale dello stato nella gestione dell’economia, sottrando il paese agli appetiti del capitale neoliberale continentale e d’oltre-oceano.
Se il mondo non sarà più come prima, anche la politica italiana dovrà cambiare con l’ingresso di nuovi attori sulla sua scena. Anche la politica di un’opposizione radicale di sinistra che sin’ora ha prodotto solo liti di bottega tra euroriformismo, sostenitori “critici” della sinistra dem euroimperialista alla Schlein e i rimasugli autoreferenziali e spesso dogmatici di una visione rivoluzionaria ma schematica di società.
Va da sé che nella società colpita a morte da questo evento occorre ricostruire un collante politico e dei legami sociali che rispondano alla formazione di un fronte democratico popolare per la rinascita del paese. Un fronte dove i comunisti abbiano un ruolo attivo e propulsore andando a considerare anche quel sentire popolare e quegli interessi particolari presenti sul territorio, che sin’ora i comunisti stessi non sono riusciti o non hanno voluto contemplare per una sorta di spocchia classista circoscritta solo a dati settori sociali.
Se non capiamo questo, non siamo neppure in grado di cogliere questa opportunità di forte debolezza politica della borghesia italiana nel suo complesso e di lavorare politicamente per porre al centro di un processo rivoluzionario di carattere collettivistico nell’ambito ancora di un’economia mista, quel proletariato di cui ci siamo sempre riempiti la bocca senza però a definirlo nella sua composizione sociale. Ora si tratta di costruire una vasta unità sociale su questi contenuti politici. Non certo di costruire unità politica con i rottami di una sinistra decotta e supina ai dettami neoliberali secondo una retorica sociale di facciata.